I fondi sovrani, creati con gli enormi surplus commerciali dei paesi asiatici o con le entrate petrolifere dei paesi produttori, sono stati i grandi protagonisti della prima fase della crisi finanziaria a cavallo fra 2007 e 2008. Una raffica d'investimenti clamorosi li ha portati a diventare in pochi mesi i maggiori azionisti di alcune delle più importanti banche del mondo. Diverse di queste operazioni, come l'ingresso in Merrill Lynch e in altre istituzioni americane ed europee, si sono rivelate disastrose.
La caduta verticale dei mercati, solo in parte compensata dal secco rimbalzo dal marzo scorso a oggi, e il crollo del prezzo del petrolio, pur se anch'esso di recente in forte ripresa, hanno fatto sì che il patrimonio aggregato dei fondi sovrani a fine settembre 2009, calcolato in 3.752 miliardi di dollari, restasse al di sotto dei valori di metà 2008. La profezia di Morgan Stanley, secondo cui i fondi sovrani avrebbero controllato entro il 2015 attività per 12mila miliardi di dollari, appare oggi poco realistica.
Dopo la fase più acuta della crisi, i fondi sovrani hanno cambiato strategia d'investimento, allontanandosi dalle istituzioni finanziarie e puntando soprattutto sulle risorse naturali. Secondo dati del Sovereign Wealth Fund Institute, le due categorie d'investimento preferite sono adesso partecipazioni strategiche in società che operano nelle materie prime e acquisti di azioni di compagnie petrolifere. Ora i fondi sovrani sono più accorti, più selettivi e hanno adottato un profilo più basso, anche per cercare, non sempre con successo, di evitare l'opposizione spesso vivace nei paesi destinatari delle loro operazioni.
Poco è cambiato tuttavia nella trasparenza e negli standard di governance dei fondi sovrani, a un anno e pochi giorni dalla sottoscrizione, seppure su base volontaria, di un codice di condotta, i cosiddetti principi di Santiago, in base ai quali i fondi si sono impegnati proprio a questo. Di molti fondi sovrani si sa a malapena quale sia l'ammontare del patrimonio in gestione e su tutti quelli appartenenti a regimi non democratici resta il dubbio su chi veramente li controlli e se vengano usati a beneficio dei cittadini del paese d'origine. Dal canto loro, i fondi lamentano di essere discriminati rispetto agli altri investitori. Ma è chiaro che diversi di essi, a partire dai cinesi, basano i propri investimenti non solo, o non tanto, su valutazioni economiche, come chiedono i principi di Santiago, ma su motivazioni geopolitiche.
Nello sforzo collettivo avviato dopo la crisi per riportare tutti i mercati e tutti gli operatori sotto il perimetro della regolamentazione, i fondi sovrani restano un "buco nero" dal punto di vista dell'informazione di mercato. Il primo compleanno dei principi di Santiago contiene una lezione importante per il dibattito più generale in corso sulle nuove regole della finanza: riscrivere le regole è un primo passo doveroso, ma non servirà a nulla se le autorità non saranno attrezzate con gli strumenti per farle rispettare.