Secondo una diffusa percezione le produzioni di base – come quella del cemento – hanno scarso futuro nei paesi di più antica industrializzazione. Esse tendono infatti a delocalizzarsi verso i paesi emergenti per ragioni strutturali del tutto evidenti che riguardano una crescita organica della domanda più sostenuta in quelle aree che spesso si coniugano con criticabili condizioni più “permissive” di produzione.
Per quanto riguarda Italcementi, che ha una dimensione di circa 6 miliardi di fatturato, 23mila dipendenti in 23 paesi, continuiamo a generare in Italia circa un quinto dei ricavi totali; ma manteniamo in Italia un forte radicamento e la testa del gruppo, quindi il dato di fondo è che oggi è impossibile sviluppare imprese grandi e competitive prescindendo da una fortissima proiezione internazionale. Ma rimanere in Italia, è oggi una scelta razionale per un gruppo dalle dimensioni mondiali? La risposta, se vogliamo essere sinceri, è “no”. È una scelta emotiva, e mi chiedo fino a quando le nostre radici italiane ci manterranno ancorati al nostro Paese.
Il paradigma attorno a cui articoliamo ormai da anni in modo trasparente la nostra azione per mantenere anche in un paese maturo come l'Italia una forte componente produttiva è quello della sostenibilità dello sviluppo, attorno alla triplice bottom-line economica, ambientale e sociale. Non in una visione favolistica del ruolo dell'impresa, ma convinti che anche per un'industria di processo come la nostra la perennità della propria crescita non possa prescindere dall'accettabilità della propria azione da parte di tutti gli stakeholder.
L'industria deve tornare al centro della scena. Il valore aggiunto da questa generato (assieme ai servizi che per essa lavorano) rappresenta ancora la parte preponderante della ricchezza prodotta dal Paese.
La politica industriale può giocare un ruolo importante per innalzare la competitività e la sostenibilità dalle imprese italiane; per favorirne la crescita dimensionale e l'internazionalizzazione.
La sostenibilità dovrebbe essere vista come un bene pubblico; il sistema d'incentivazione dovrebbe essere esplicitamente parametrato su di essa. A queste condizioni anche i settori di base, considerati più "energivori", potrebbero mantenere prospettive interessanti nei paesi maturi.
La sostenibilità è virtuosa se sviluppa attraverso l'innovazione nuove capacità competitive delle nostre aziende sotto il profilo ambientale e l'efficienza dei processi; condizioni che possono essere vissute oggi come vincoli, ma che costituirebbero un patrimonio competitivo domani sullo scenario internazionale.
I vincoli normativi e autorizzativi bloccano tuttavia qualsiasi ambizione d'intraprendere nel nostro paese. Faccio un inciso: nel 2000 lanciammo un progetto di riconversione del nostro sistema di produzione elettrica, si trattava di un progetto che avrebbe ampiamente ridotto le emissioni e mobilitato circa 4 miliardi di euro d'investimenti. In nove anni abbiamo speso alcune decine di milioni in iter burocratici autorizzativi, ma non abbiamo ancora avuto la possibilità di investire un euro. Ogni tornata amministrativa ci costringe a ricominciare il confronto con le amministrazioni comunali emerse dalle elezioni. E dopo cinque anni spesso si deve ricominciare. E così accade talvolta con gli altri livelli di amministrazione e di governo. In Bulgaria, il nostro gruppo ha ottenuto i permessi necessari per ammodernare una attività industriale in sei mesi.
Non credo nel liberismo selvaggio, sono convinto che il confronto sia la strada giusta per poter disegnare un nuovo modello di sviluppo. Ma sono anche convinto che lacci e laccioli stiano soffocando il nostro sistema industriale che più di ogni altra attività economica è sottoposto a vincoli spesso farraginosi.
Nel maggio del 2007 lanciai un "Patto per l'ambiente" in cui sostenevo che investimenti finalizzati a significativi miglioramenti ambientali dovessero avere una corsia autorizzativa privilegiata. Sono convinto che questa idea, magari allargata all'innovazione, sia oggi ancor più opportuna di ieri. Un Patto per l'ambiente e l'innovazione libererebbe rilevanti risorse in investimenti finalizzati al rinnovamento strutturale del nostro sistema industriale e produttivo a costo zero per le casse pubbliche, rivitalizzando rapidamente la domanda interna del paese. Governo, sindacato e imprese devono, ripeto devono, trovare il modo per accelerare strutturalmente gli investimenti virtuosi nell'interesse di tutti.§
* Carlo Pesenti è consigliere delegato Italcementi