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Per fortuna il reddito non è tutto

di Orazio Carabini

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21 settembre 2009

Mario è un professionista affermato. Vive in una grande città e il suo reddito è elevato. Tuttavia per raggiungere il suo studio passa più di due ore al giorno in automobile, in mezzo al traffico. E anche la sua casa, pur grande e ben rifinita, è immersa nell'inquinamento, atmosferico e acustico, della città. Così Mario mette da parte una buona parte del suo reddito per scappare dalla città: vacanze, fine settimana, ponti, non si fa sfuggire occasione per evadere.

Giovanni è un imprenditore di successo. I soldi non gli mancano ma è costretto a vivere in un quartiere preso a bersaglio dalla criminalità. Il forte senso di insicurezza lo spinge a rintanarsi in casa dove, per trascorrere il tempo libero, si è dotato di tutte le meraviglie della tecnologia, con un sistema home theater mostruoso.
Qual è l'effettivo livello di benessere di Mario e Giovanni? Sono soddisfatti del loro pingue reddito, delle loro vacanze esotiche e dei loro ritrovati tecnologici? Quanto soffrono la mancanza di tempo libero, rosicchiato dalla mole del lavoro, dal tempo speso nel pendolarismo, dalle complicazioni burocratiche delle metropoli? In sintesi, quanto sono "felici"?
Sarebbe bello poter rispondere con un semplice numeretto. Poter affermare, per esempio: "Gli italiani, in una scala da uno a dieci, sono a livello otto". Ma la felicità, o più propriamente, il livello di benessere, non si misura facilmente.

Deve tener conto di una serie di indicatori (salute, istruzione, sicurezza, lavoro, altre attività personali, partecipazione alla vita pubblica, relazioni sociali, ambiente) che è difficile concentrare in un unico indice. E che tuttavia non si possono più trascurare quando si valuta la sviluppo economico e sociale di uno Stato.
In fondo la forza del Pil (Prodotto interno lordo), nella sua variante pro capite magari corretta a parità di potere d'acquisto, come misura del progresso deriva proprio da lì: in un numeretto è racchiuso, o sembra racchiuso, il profilo di una popolazione. E pazienza se i servizi sanitari uno poi se li deve pagare, se non tutti hanno diritto all'istruzione, se per produrre quel reddito si aumenta l'inquinamento, si consumano le risorse naturali non rinnovabili, si sottraggono possibilità alle generazioni future. Pazienza se quel reddito è distribuito in modo ineguale, se pochi ricchissimi alzano la media di tanti poveri.

Ha fatto bene il presidente francese Nicholas Sarkozy ad accendere un faro su tutti quei "pazienza se". Ci sarà anche un rigurgito di grandeur dietro un'iniziativa che ha comunque messo in chiaro come la distanza tra gli Stati Uniti e l'Europa sia meno ampia di quanto i confronti del reddito pro capite fanno credere. Ma il "feticismo del Pil" ha fatto il suo tempo. E il rapporto conclusivo della commissione guidata da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi ha indicato il percorso. La strada è lunga perché mettere a punto una serie di indicatori del benessere che possano essere accettati a livello internazionale e nei singoli paesi dalle parti politiche e sociali richiede un lavoro di lunga lena (come ha ben spiegato il presidente dell'Istat Enrico Giovannini, unico italiano della commissione Stiglitz, sul Sole 24 Ore di sabato).
Alla fine si potrebbe scoprire un mondo abbastanza diverso da come viene descritto nelle analisi attuali. Con sorprendenti cambiamenti nelle gerarchie ammesso che tra tanti indicatori si riesca a realizzare una classifica che tenga conto di tutti quanti.

Attenzione però a non eccedere nella direzione opposta, dimenticando o comunque sottovalutando l'importanza del Pil o di qualche altro indicatore del reddito magari più vicino alla percezione della popolazione come il reddito disponibile delle famiglie. Perché, per quanto il benessere possa derivare da tanti altri elementi, la crescita dell'economia rimane la via maestra per migliorare le condizioni di vita di un paese.

21 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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