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ANALISI / La difficile scommessa di far vincere
il merito

di Marcello Clarich

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21 settembre 2009


È destino di molte riforme perdere pezzi o essere annacquate strada facendo. Ciò può accadere lungo tutto l'iter, nel passaggio dalla proposta originaria alla legge approvata, dalla legge delega al decreto legislativo attuativo, dal livello statale alle norme locali o alla contrattazione.
Potrebbe essere questo il destino della riforma del pubblico impiego all'insegna della valorizzazione del merito e della trasparenza. La legge delega approvata a marzo (legge 15/2009) gettava le basi per una minirivoluzione della disciplina dei dipendenti pubblici, rendendo più stringenti una serie di principi rimasti fino a oggi quasi lettera morta. Per esempio, la valutazione rigorosa dei dirigenti e dei dipendenti, o l'attribuzione selettiva di incentivi economici.
Lo schema di Dlgs predisposto dal governo prima dell'estate sviluppa la delega in norme che pongono paletti rigidi. Così, in particolare, all'esito delle valutazione effettuate da un organismo indipendente da istituire in ogni amministrazione, il personale viene distribuito in tre fasce per l'attribuzione della retribuzione accessoria. Chi finisce nella fascia più bassa (un quarto dei dipendenti) è escluso dalla ripartizione delle risorse.
Questa e altre novità non saranno attuate in tutte le Pa. All'esito del confronto con Regioni ed enti locali, il nuovo schema di Dlgs attenua la portata vincolante immediata di molte disposizioni. Ciò perché, in seguito alla riforma costituzionale del 2001, lo Stato (cioè le norme statali) non possono intaccare l'autonomia di cui godono le Regioni in questa materia. Così molte disposizioni non saranno applicabili a livello locale. Ciascun ente dovrà adeguare il proprio ordinamento entro il 31 dicembre 2010 nel rispetto dei principi ricavabili dal decreto legislativo. Ciò determinerà due effetti: lo slittamento dell'entrata in vigore della riforma, e la possibilità di attenuare la portata innovativa di molte norme.
A quel punto i dipendenti statali potrebbero sentirsi discriminati e chiedersi addirittura se sia incostituzionale, oltre che ingiusto, un regime avvertito come troppo rigoroso. In realtà, la Costituzione non consente di confrontare in modo diretto lo status giuridico dei dipendenti statali e locali in base al principio di eguaglianza, perché l'interesse alla salvaguardia delle prerogative regionali prevale. In nome del principio di sussidiarietà, ogni livello di governo stabilisce le proprie regole organizzative e di gestione del personale.
In realtà, man mano che procede l'evoluzione del nostro ordinamento in senso semifederale, bisognerà abituarsi a differenze anche marcate. Essenziale è però che le conseguenze negative del l'inefficienza e dei costi eccessivi delle strutture burocratiche ricadano solo sugli enti che indulgono nel lassismo. Ancora oggi c'è l'aspettativa che, com'è accaduto di recente, intervenga lo Stato a ripianare le perdite. Ancor più importante sarebbe la reattività dei cittadini-elettori che ricevono servizi scadenti. Su entrambi i fronti c'è ancora molto da fare.

21 settembre 2009
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