Tra noi e la ripresa c'è la stessa distanza che divide il Wyoming dall'Italia. Le parole di Bernanke da Jackson Hole hanno rinvigorito le borse e dato speranza agli Usa, ma non sono (ancora) adatte alla situazione italiana.
Il nostro Pil – la ricchezza del paese – è tornato al tempo buio della fine del 2001. Per la prima volta da molti anni vedremo chiusure di fabbriche e il deterioramento dello scudo protettivo dei mitici distretti industriali. La produzione industriale è scesa del 22% e alla riapertura dopo le ferie rischiano di restare fuori dai cancelli 4-500mila lavoratori.
L'autunno sarà difficile, come ha spiegato il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, preoccupata per le incertezze sul futuro delle aziende italiane. E non basterà certo una stagione per tornare all'economia del pianeta prima del cataclisma finanziario. La domanda mondiale dà flebili segni di risveglio, ma non è chiaro quanta parte dei nuovi benefici possa ricadere sul nostro paese. Berlino e Parigi sono ripartite, ma dovranno passare molti mesi per averne sentore a Milano a Roma. Gli Usa ripartono ma pensano al buy american, la Cina resta sbocco importante e generoso per chi riesce a portare le merci fino a Shanghai. Ma sono pochi.
Chi ha aspettato gli eventi in una surplace affidata all'azzeramento delle scorte ora comincia a rifornirsi, ma alla fine sarà la domanda interna a fare la differenza. La velocità di uscita dalla recessione dipenderà soprattutto dalla capacità di consumo, quindi dalla stabilità dei redditi e da un mercato del lavoro efficiente anche in periodi di disoccupazione. Cassa integrazione e mobilità, nonché gli sconti fiscali per il salario aziendale, diventano le priorità per i fondi pubblici.
La crisi potrebbe anche cambiare il paese in meglio, se alla fine si abbandonassero settori a basso valore aggiunto e si irrobustissero le imprese più competitive. Ma anche in questo caso è questione di risorse: con politiche di vantaggio fiscale si dovrà favorire la crescita dimensionale delle imprese. Occorre buon senso ed equilibrio. E, finalmente, una politica di veri tagli alla spesa pubblica (centrale e soprattutto regionale).
Certo non serviranno né la nostalgia dell'autunno caldo né l'ottimismo di maniera con cui forzare le aspettative, sperando che ciò basti a cambiare la realtà. Nel primo caso si aggiunge crisi a crisi, nel secondo anche. Con l'aggravante del ridicolo.