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Stop alle coalizioni della rendita

di Franco Debenedetti

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Sabato 22 Agosto 2009

Qualche giorno fa, su Radiotre, parlandosi di Mezzogiorno, l'ospite della trasmissione invitava a non dimenticare il tributo di sangue che l'unità d'Italia è costato alle regioni meridionali: a suo dire, oltre 600mila morti, 50 comuni cancellati dalla carta geografica, il brigantaggio come movimento popolare di resistenza alla cultura dell'invasore; il conduttore sembrava condividere. D'altra parte, quante volte abbiamo sentito vantare la ricca cultura, la nascente ma già prospera industria, i primati nelle infrastrutture della Napoli dei Borbone, estirpati o soffocati dai sabaudi? Quante volte abbiamo sentito dei risparmi meridionali raccolti dalle banche meridionali e "mandati" nel Nord? Per finire al "diritto" di copiare agli esami, un aiutino dovuto agli studenti "vittime di un sistema che non funziona"?
Ma confutare questi dati, ricondurre i ricordi alla realtà di un contesto ben diversamente variegato, sarebbe sbagliato. Sbagliato ricordare che i risparmi investiti al Nord erano remunerati due volte, la prima con gli interessi, la seconda con gli aiuti pagati dalle tasse sui redditi prodotti dagli investimenti al Nord; anzi tre volte, con il salvataggio delle banche meridionali fallite. Bisogna piuttosto riconoscere la continuità tra il forzato innesto di cultura sabauda nell'800 e il modello di crescita perseguito dall'Italia repubblicana un secolo dopo. Bisogna chiedersi se non sia una causa comune ad aver provocato i fallimenti dell'uno come dell'altro, e se questa a sua volta non sia della stessa natura di quella che ha provocato il fallimento degli aiuti internazionali ai paesi poveri. Questi, come accusa William Easterly in I disastri dell'uomo bianco, sono di fatto stati la trappola con cui i "pianificatori" hanno incarcerato i poveri del mondo. Certo, è solo per paradossale metafora che chiamiamo "da terzo mondo" episodi e situazioni che si verificano nel Sud: ma quando si constata che tutte le politiche meridionalistiche da 150 anni a questa parte sono state un sostanziale insuccesso, e hanno lasciato uno strascico di recriminazioni, viene naturale ricordare la distinzione che Easterly fa tra pianificatori e ricercatori. «I pianificatori hanno buone intenzioni, ma non motivano nessuno a metterle in pratica; i ricercatori trovano le cose che funzionano e ricevono qualche riconoscimento. I pianificatori alzano le aspettative ma non assumono nessuna responsabilità perché siano soddisfatte, i ricercatori accettano di essere responsabili delle loro azioni. I pianificatori applicano piani globali, i ricercatori si adattano alle condizioni locali».
Dalla Cassa del Mezzogiorno alla nuova programmazione di Ciampi, al Fas, agli Apq (Accordi di programma quadro), sono tutti prodotti di "pianificatori" e non di "ricercatori". Nei miei 35 anni nell'industria, ho sempre dovuto occuparmi anche di aziende meridionali, di piccole e di assai grandi, utilizzando quindi le provvidenze a loro favore, realizzando contratti di programma, eccetera: con i miei occhi ho constatato le distorsioni a cui hanno condotto tutte - ripeto tutte - le misure di incentivazione allo sviluppo industriale del Sud. «Gli effetti - scrive Ivan Lo Bello sul Sole 24 Ore del 6 agosto - sono stati devastanti anche sulla cultura d'impresa: il mercato, il merito, la concorrenza, l'innovazione, l'attenzione alle questioni sociali e ambientali, la cultura delle regole sono stati in alcuni settori sostituiti da una regolazione anomala e parassitaria che ha nutrito, insieme a parte del mondo imprenditoriale, il ceto politico/burocratico e, in altri contesti, le consorterie mafiose e criminali. Si è costituita nel tempo una "coalizione della rendita" che rappresenta oggi in Sicilia e in molte parti del Sud il principale ostacolo alla crescita economica e civile». È inevitabile, se vengono erogati fondi, disposte politiche di favore, è ovvio che si sviluppino le capacità per accaparrarsi quei fondi, per avvantaggiarsi di quelle politiche: gli aiuti producono la burocrazia pubblica che deve erogare, quella privata che deve interfacciarla, quella professionale che deve certificare il rispetto della legalità.
Si capisce perché alcuni meridionalisti, in primis Nicola Rossi, ritengano che la sola politica giusta per il Sud sia tagliare tutti i finanziamenti, salvo alcune grandi opere d'indiscussa necessità (la Salerno-Reggio, la Ionica, la Tav Napoli-Reggio, i collegamenti Messina-Palermo e poco di più). Oltre, come suggerisce l'Istituto Bruno Leoni, a fare del Mezzogiorno una no tax area: tra crisi e impegno a non concedere altri aiuti, dovrebbe essere possibile strappare il consenso che la Commissione europea ci ha finora sempre negato (e ha concesso all'Irlanda).
I comuni ritornino a tenere in ordine marciapiedi e fognature, le province a mantenere le strade, le regioni a far funzionare la sanità: invece d'inventarsi centri d'eccellenza, festival, iniziative pubblico-privato, e a dare consulenze per aiutare i burocrati beneficiari a redigere piani che soddisfino i criteri dei burocrati erogatori. È soprattutto a causa della pubblica amministrazione che, se una cosa funziona male al Nord, nel Sud è peggio. È di lì che bisogna incominciare, magari usando semplici comparazioni, quale quella di Alberto Alesina, secondo cui se la burocrazia meridionale avesse tanti dipendenti per abitante quanto quella del Nord, con stipendi nominali differenziati, in modo che tutti avessero lo stesso stipendio reale, costerebbe la metà dell'attuale.
  CONTINUA ...»

Sabato 22 Agosto 2009
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