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«Ho scritto io il romanzo delle Pmi in affanno»

di Edoardo Nesi

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22 Aprile 2010
«Ho scritto io il romanzo delle Pmi in affanno». Nella foto Edoardo Nesi

Lo sapevo bene che in Italia certi argomenti sono radioattivi e che, prima ancora di poter leggere il mio libro (Storia della mia gente) qualcuno sarebbe saltato su a dire che, alla fine, non faccio altro che invocare il vecchio arnese consunto del protezionismo.
Che vorrei la restaurazione dei dazi e delle tariffe e delle gabelle e di tutto il resto dell'antica paccottiglia che gli economisti liberisti sono usi brandire contro chiunque osi mettere in dubbio le loro certezze. Che, alla fine, sono solo un altro luddista, deluso e arrabbiato e incapace di capire il verbo del capitalismo, e cioè che a mercati aperti le imprese inefficienti devono chiudere.

Debbo dire che mi ha molto sorpreso, invece - e ha indignato mia madre - sentirmi accusare di un sentimento antielitario. Ma come, proprio io che da quando sono nato mi sono sempre sentito parte di un'élite! Sono quasi offeso.

A dirla tutta, però, non aspettavo altro. Da anni non vedevo l'ora di scaldarmi le mani. Cominciamo dal protezionismo.

Vorrei che qualcuno della banda dei liberisti mi spiegasse perché a Bruxelles la politica francese ha condotto pluridecennali lotte bipartisan a illogica e fervente difesa dei suoi agricoltori, perché le lobby inglesi e scandinave combattono da anni con successo per la gloria delle loro catene di grande distribuzione, perché i parlamentari tedeschi d'ogni credo hanno montato un'indefessa guardia a difesa della loro industria chimica e automobilistica senza mai essere definiti protezionisti.

Nel frattempo il mio piccolo, coraggioso libro diventa protezionista solo perché racconto la verità, e cioè che l'intera industria manifatturiera italiana, au contraire, è stata invece lasciata in balia dell'invasione dei prodotti cinesi dalla negligenza e dall'incuria dei nostri politici, impegnati ormai da 15 anni solo ad accapigliarsi intorno alle titaniche questioni penali e personali di Berlusconi.

Tutto ciò nella pressoché generale acquiescenza degli economisti, quasi tutti impegnati a recitare di continuo alla radio, alla televisione, nei convegni e nelle orecchie dei ministri d'ogni credo politico il loro mantra ottimistico secondo il quale la globalizzazione non poteva portare che bene, a tutti; che le tasse erano bellissime; che i nostri ragazzi senza lavoro costretti a vivere nelle case dei loro genitori non erano che bamboccioni.

So bene che il protezionismo non funziona mai, e che diventa persino comico quando è una sola nazione a proteggersi dal mondo, e di certo non invoco il ritorno dei dazi, che ogni volta che li sento nominare mi fanno tornare in mente quell'irresistibile scena di Non ci resta che piangere in cui il mio compaesano Benigni e il povero Troisi sul carretto devono affrontare le cieche, esose richieste d'un doganiere medievale.

Però io vivo immerso in una città che sta diventando uno dei simboli della situazione disastrosa in cui si trova gran parte della piccola e media e grande industria italiana, schiacciata nella morsa tra mercati sempre più recalcitranti a comprare i nostri prodotti e un sistema bancario che sembra divertirsi a inventarsi sempre nuove regole per restringere il credito alle imprese, e mi chiedo quanto potrà durare, questo stato di cose. Quante aziende dovranno chiudere, quante persone dovranno perdere i loro posti di lavoro, quanti giovani dovranno sentirsi inadeguati prima che qualcuno chieda scusa e ammetta che l'intera politica industriale italiana degli ultimi 15 anni è stata ciecamente condotta nei paraggi del baratro dall'osservanza cieca ai principi astratti dei liberisti, importati d'oltreoceano e imparati a pappagallo, ammantati d'un sudario di cinismo che si stende su una serie di argomenti vuoti, vieti e spietati, il più comico dei quali mi fa prudere le mani ogni volta che lo sento, e recita che il gioco della globalizzazione è a somma positiva - come se la globalizzazione potesse essere definita un gioco.

Con tutto il rispetto, li invito ad alzare il culo dalle cattedre (questa forse era un po' forte, chissa se è vero davvero che ce l'ho con le élite) e a venire a Prato, a cercare col lanternino la somma positiva della globalizzazione. Lo spieghino ai cassintegrati, ai cento padri di famiglia che ogni mese perdono la mobilità, ai ragazzi che escono dagli istituti tecnici, dai licei e dalle università e non trovano lavoro, agli imprenditori che uno dopo l'altro licenziano e chiudono le loro aziende, che la globalizzazione è un gioco, e conviene anche a loro.

E se poi quella loro sciocchezza volesse dire che la somma positiva del gioco deve esser cercata da qualche parte all'estero, e non in Italia, allora bisognerebbe davvero mettersi le mani nei capelli a pensare a quanta attenzione, quanto rispetto, quanto ascolto sono stati regalati negli anni a questi signori.

Riguardo all'efficienza delle imprese, vorrei dire che non è serio, non è degno, non è onesto contrapporre il gran caravanserraglio senza regole dell'industria cinese a un sistema industriale fatto di piccoli imprenditori selvatici spesso indistinguibili a prima vista dai loro dipendenti: uno straordinario esperimento di distribuzione della ricchezza che è il frutto di quasi 200 anni di progresso sulla legislazione del lavoro; che ha saputo spesso congiungere l'industria con la creatività, riuscendo miracolosamente a perpetuare quella splendida fandonia che ancora funziona in tutto il mondo e affonda le radici nel tempo più lontano, in quell'irripetibile momento di commistione tra Arte e Vita che fu il Rinascimento Fiorentino quando, grazie a Lorenzo de' Medici, nacque e si perpetuò l'idea che dentro gli italiani alberghi una specie di geniale spirito artistico, che li rende unici per la capacità d'ispirarsi all'arte e farla scendere sulla Terra in forma d'artigianato sublime; che pur ridicolizzato dal cinema e dalla letteratura ha reso l'Italietta fascista e mediocre una nazione moderna e ricca.

  CONTINUA ...»

22 Aprile 2010
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