Se il candidato conservatore David Cameron, 43 anni, vincerà il 6 maggio, sarà il 20° primo ministro britannico sfornato dall'Eton College, la scuola più esclusiva al mondo con retta annuale che sfiora le 30mila sterline. Solo da alcuni anni, il 15% degli studenti di Eton - ma solo i talenti - può godere di un sostegno statale; il resto sono rampolli delle più ricche famiglie inglesi. Cameron, che ha poi conseguito un B.A. in Politics a Oxford, si è sempre schermito per questa sua educazione selettiva e aristocratica, definendosi, a suo tempo, il vero Tory Blair per il suo agnosticismo e le posizione liberal su omosessuali e questioni ambientali.

Probabile vincitore nei sondaggi, si deve guardare dal vantaggio non sufficiente a governare da solo che potrebbe separarlo da Gordon Brown, 59 anni, anch'egli con credenziali educative in regola, con un passato da giornalista e docente universitario (lecturer a Edimburgo e Glasgow) ma invecchiato nella snervante attesa all'ombra di Blair. Soprattutto, Cameron deve rintuzzare la dialettica televisiva del suo coetaneo Nick Clegg, studi in antropologia a Cambridge, astro nascente che guida la terza forza liberaldemocratica.

I curriculum dei tre candidati rivelano le differenze tra le élite inglesi e quelle del Continente e in particolare italiane: si tratta di tre persone con un passato educativo e professionale prestigioso e due di essi sono quarantenni. Questo dimostra l'importanza di disporre di un'élite capace di essere classe dirigente e una guida politica e morale in grado di guardare al futuro del paese. Gli inglesi ce la stanno mettendo tutta per "ripartire", a cominciare dalle loro élite che, dopo la crisi, hanno subìto un tracollo di fiducia, come mostrano le rilevazioni di Eurobarometer. Le élite inglesi stanno cercando di rispolverare il loro distinguishing style che, negli ultimi trent'anni, le aveva incoronate come l'ultimo prodromo vitale e a scala globale delle declinanti leadership nazionali europee. La Thatcher aveva suonato la riscossa, rilanciando una Gran Bretagna in forte declino, e aveva innescato la "rivoluzione conservatrice". Blair, aveva indicato una terza via in grado di far metabolizzare ai laburisti una moderna democrazia di mercato a trazione finanziaria.

A una leadership politica di prim'ordine si era associata un'élite finanziaria-commerciale di prestigio internazionale, che ha richiamato nella City giovani talenti da tutta Europa: era emersa una british elite internazionalizzata negli studi e nelle esperienze di lavoro, mediamente più giovane e più "rosa" che nel resto d'Europa. Questa primacy inglese traspariva anche nella musica, nella letteratura e nelle attività creative, senza dimenticare le research universities britanniche, volàno dello sviluppo delle conoscenze oltre che motore di una cultura del merito, sostenuta anche dalla cultura del mercato e della concorrenza (i self-made men forgiati sul campo).

Il profilo di rilievo globale delle sue élite ha consentito al Regno Unito di svolgere un ruolo di cerniera tra Nordamerica ed Europa e di mantenere la rete del Commonwealth. Certo, dopo la crisi le cose sono cambiate nella City. Se prima si riconosceva un profilo distintivo strategico alle élite finanziarie, ora si nutre sfiducia verso chi ha tradito le aspettative. I rovesci di Blair, la polemica sui rimborsi spese dei parlamentari, la crescita del deficit pubblico hanno contribuito ad avvalorare l'idea che i politici sono attenti solo quando a parlare è il denaro. Lo sconforto dell'opinione pubblica non nasce tanto dalla riapertura di antiche ferite tra statalisti e mercatisti, critici e sostenitori della monocultura finanziaria. La rivoluzione conservatrice continua ad alimentare il senso comune. Il disincanto nasce dall'incertezza di poter disporre di élite in grado di indicare un'efficace exit dalla crisi.

La politica, alle elezioni, mette allora in campo un premier che promette protezione e recupero e due nuovi "cavalli di razza" nel tentativo di restituire agli inglesi visione, fiducia e senso del futuro. Tuttavia non sarà semplice ricreare quel senso di primacy che ha contraddistinto la storia recente degli inglesi. Non solo per i problemi economici e finanziari, ma anche per la recessione sociale che ancora imperversa (sono 2,5 milioni i disoccupati) e per il malessere politico non ancora sedato dall'ascesa di una nuova leadership. Resta però la consapevolezza diffusa che il radicamento di una cultura fondata su mercato, merito e democrazia potrà contribuire a una ripresa del paese molto più di quanto potrebbe una più efficace governance europea, che gli inglesi continuano a relativizzare. La fiducia del paese, insomma, si rilancia mettendo in valore istituzioni, risorse e talenti.

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