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IL CONTROCANTO / La vera domanda: perché andiamo più piano?

di Alberto Mingardi

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22 Aprile 2010

L'impresa nella letteratura, specie in quella contemporanea, non gode di buona stampa. Anche per questo La storia della mia gente di Edoardo Nesi (Bompiani), che fa del distretto tessile di Prato il proscenio di un romanzo, è un libro straordinariamente interessante.

Ma ogni buona storia è una storia di parte, non un'analisi economica, e Nesi non sfugge alla regola. I suoi protagonisti, gli imprenditori pratesi del tessile, cercano un nemico e se lo trovano. Quando si sfarinano le frontiere e arrivano prodotti a basso prezzo dell'Oriente, loro finiscono a maledire «se stessi e i clienti e i dipendenti e la crisi e la globalizzazione e tutti i Giavazzi del mondo che invece di aiutarli li prendevano per il culo coi loro consigli di licenziare gli operai per assumere giovani matematici». Come dire: chi sa fa e chi non sa insegna.

Chi può negare che la globalizzazione abbia prodotto vincitori ma anche vinti? La storia dei vinti è forse migliore, almeno da raccontare. I benefici prodotti dall'apertura degli scambi sono “spalmati” su una realtà sociale vasta ed eterogenea come quella dei consumatori, e non fanno identità. Nessuno si guarda allo specchio e pensa: sono il fortunato acquirente di un pc che costa la metà di quanto costerebbe in un mondo di protezionismi incrociati. Un imprenditore che si senta sconfitto dalla Cina, si guarda allo specchio e lo vede. È per questo che le domande di tutela, di protezione, di dazi, sono politicamente più forti e si fanno sentire di più.

Quello che s'intuisce appena, a cui nessuno sa dedicare un romanzo, è il miracolo degli ultimi vent'anni. Il fatto che quel sistema, quello per cui lavorare sodo è l'anticamera del successo economico, si è sparso a macchia d'olio. Compriamo a poco un jeans cinese e pensiamo alla crisi di Prato: non ai milioni d'individui che ha traghettato al di fuori dalla povertà più abietta.

Non c'è prospettiva meno “elitaria” di quella di chi abbia messo sulla bilancia l'una e l'altra cosa, e sappia sviluppare un senso d'empatia anche con persone che hanno colore della pelle e nazionalità diversa, e riescono per la prima volta a inseguire un miraggio a noi familiare: quello della prosperità economica. E il bello, come sempre nel mercato, è che questa complessa forma di cooperazione fra esseri umani non ha bisogno di un progetto solidarista per compiersi o per essere regolata: le basta l'interesse particolare, frammentato, che si unisce agli altri in un mosaico più vasto. Il fatto che questa “magia” si compia non più solo all'interno di mercati geograficamente limitati al solo Occidente, ma si stagli su tutto il globo, porta a cambiare le strutture produttive, consente una migliore specializzazione, si finisce a contribuire tutti al libero scambio mondiale nei modi che sono più efficienti, sulla base delle concrete circostanze in cui ciascuno produce.

Un narratore può descrivere la vertigine dell'uomo d'azienda verso i costi che lievitano, e si fanno insostenibili nel confronto con l'offerta cinese e la domanda che cambia a s'adatta alle nuove condizioni. Sta bene, ma c'è il passo successivo: chiedersi non perché gli altri corrano più forte ma perché noi si vada più piano. La divisione internazionale del lavoro garantisce un'allocazione migliore dei fattori produttivi, e fin qui siamo al chi sa fa e al chi non sa insegna. Ma la scomposizione e la ricomposizione del modo in cui i fattori produttivi vengono allocati, a Prato o altrove, la riqualificazione della mandopera, il libero fluire della creatività imprenditoriale, chi li ostacola? I cinesi, o non piuttosto uno stato che è, nella sua forma attuale, coi suoi costi attuali, con le sue regole attuali, la prima causa della perdita di competitività delle nostre imprese?

Per citare l'incipit della Vita di Vittorio Alfieri, il parlare, e molto di più lo scrivere di se stessi, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di se stesso. Lo stesso vale per il parlare, e molto di più lo scrivere d'imprese. A Nesi chiederei solo un'ammissione: che fra lui e i “liberisti” che critica, a chi è più innamorato ce la giochiamo.

22 Aprile 2010
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