La scuola di Chicago è viva e lotta insieme a noi o è morta e sepolta? Sembra una questione accademica relegata alle aule universitarie. Polemiche tra economisti. In realtà è una querelle che potrebbe rivelarsi fondamentale nella regolamentazione dei mercati finanziari. Ha acceso la miccia Richard Posner, giurista, esponente di primo piano della corrente liberista fondata da Milton Friedman: la scuola di Chicago, sconfitta dalla crisi, non esiste più.
A stretto giro gli ha risposto Eugene Fama, economista, grande vecchio del cenacolo che ha sfornato Nobel dell'Economia tra cui lo stesso Friedman, Gary Becker, Ronald Coase, Robert Lucas, George Stigler: la scuola è vitale, la vittoria keynesiana è un fuoco di paglia. Tesi accolta sul Sole di domenica scorsa da Alberto Mingardi e ieri sul Foglio da Antonio Martino, deputato del Pdl, economista, capofila in Italia dei Chicago Boys. «La crisi - ha scritto Martino - non è stata prodotta dal fallimento del mercato, ma dagli errori della politica».
Martino usa il fioretto per raccontare la cavalcata trionfale di Reagan e Thatcher, ma non esita ad adoperare la clava: «Nessuno tranne che in Birmania e all'Harvard University oggi ritiene che vi siano alternative migliori al libero mercato. Soltanto un'assoluta follia può far imboccare al mercato una direzione sbagliata. Il mercato, una delle più grandi scoperte del genere umano, durerà, nonostante i tentativi dei politici di sopprimerlo».
Un messaggio che più che a Chicago sembra indirizzato alla Casa Bianca. Verrà raccolto? La vittoria di Keynes durerà ancora a lungo o partirà la rimonta dei Chicago Boys? Posner, Fama, Mingardi e Martino permettendo, lo decideranno gli elettori americani. Dal Massachusetts in avanti.