Due mondi separati, che parlano con linguaggi diversi, a volte incompatibili. L'ecologia su un fronte, l'economia, e soprattutto le sue scuole "ortodosse", sull'altro si sono a lungo ignorate, con un po' di sdegno reciproco. Per vent'anni, però, Partha Dasgupta, 67 anni, docente all'università di Cambridge, ha cercato di costruire un ponte tra le due discipline, sottolineando soprattutto i limiti della scienza economica e dei suoi strumenti. A cominciare dal Pil, che andrebbe integrato da altri indicatori che Dasgupta illustrerà oggi, in occasione dell'assegnazione della laurea honoris causa dell'università di Bologna, sede di Rimini.
L'economia, ha spiegato Dasgupta, deve liberarsi di quello che potrebbe essere chiamato il suo peccato originale. «Non sono un buon storico delle idee, ma l'economia è diventata una disciplina insieme alla rivoluzione industriale, con la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, nel 1776: è legata alla storia di un'Europa che in quegli anni crebbe a un ritmo impressionante, acquistando materie prime dall'estero, accumulando così capitale fisico e realizzando innovazioni tecnologiche. È stato allora che, fondamentalmente, gli economisti hanno pensato alla terra come a un fattore di produzione indistruttibile, cioè che non si deprezzava. Si parlava di terre di diversa qualità, ma la terra durava per sempre».
È questa, secondo Dasgupta, l'eredità di cui la scienza economica deve liberarsi e insieme la lacuna che deve colmare. «Gli economisti si sono creati un'immagine mentale dell'attività economica che contempla poco la natura: i modelli di crescita parlano solo di capitale fisico, di conoscenza, più recentemente anche di capitale umano».
Questa folgorante assenza può creare degli abbagli: «Si è alimentata la credenza subconscia che la natura non abbia davvero importanza, e questo ha dato vita a una percezione alterata della realtà, soprattutto tenuto conto delle attuali dimensioni della popolazione umana e del livello dell'attività economica, inconcepibile nel passato». Non può sorprendere, allora, che le statistiche siano, da questo punto di vista, di poco aiuto all'ecologia. «La contabilità nazionale non ha nulla da dirci sulla natura – dice Dasgupta –. Parliamo di Pil, la disoccupazione, l'inflazione... ma quanto capitale nazionale si è eroso?».
Il problema è allora questo: si può far rientrare la natura nella scienza economica? Il punto di partenza, secondo Dasgupta, non può che essere una considerazione: la terra - o meglio la natura perché si parla di aria, di acqua, di foreste e così via - può deprezzarsi, e questo deprezzamento deve entrare nel calcolo economico. Occorre dare un valore, oltre che alla benzina che acquistiamo, anche all'aria che abbiamo deteriorato inquinandola. Non è semplice, perché i mercati non ci forniscono né i costi (i prezzi) attuali, né quelli futuri - concretamente: quelli a carico delle prossime generazioni - che sono necessari per una corretta valutazione. Questo accade - Dasgupta lo spiegherà oggi a Rimini - anche perché non esistono diritti di proprietà (privata o comune) sicuri, completi, su questi beni.
La scienza economica non può chiudere gli occhi di fronte a queste imperfezioni del sistema economico, così come non ignora altri fallimenti del mercato: le esternalità, i monopoli e così via. È su questo che Dasgupta lavora da anni. La sua proposta non è quella di abolire il Pil. «È uno strumento utile», spiega; ma misura quanto valore aggiunto "lordo" viene generato, mentre occorre conoscere anche quello al netto del deprezzamento delle risorse naturali. Oggi Dasgupta andrà anche oltre e illustrerà la sua idea di reintrodurre nel discorso economico, sulla scia di Adam Smith, un concetto di ricchezza "comprensiva" - corretta per l'aumento della popolazione - che tenga conto anche del valore dello stock delle risorse naturali e che consenta quindi di parlare non soltanto di crescita del Pil, ma anche di sviluppo sostenibile in termini d'accumulazione di questa ricchezza.
Queste innovazioni non richiedono l'abbandono dell'ortodossia, come vogliono alcuni studiosi di economia ecologica, spiega Dasgupta, che si descrive come «conservatore», sul piano metodologico. Sa bene, però, che «introducendo la natura nei modelli economici, questi appariranno molto diversi. In questo senso si potrebbe parlare di un cambiamento di paradigma». Dove invece Dasgupta chiede con determinazione un cambiamento di mentalità è nelle politiche nazionali e internazionali: ignorare la nostra dipendenza dalla natura, avverte, è dannoso per noi e per i nostri figli.