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La borghesia? Un ceto diffuso che ha perso il tradizionale spirito di classe

di Piero Ignazi

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22 settembre 2009

Le filiere del reclutamento e della classe dirigente nei paesi industriali avanzati sono state in gran parte alimentate dalla borghesia. Ma esiste ancora qualcosa chiamata borghesia? Oppure la moltiplicazione delle occupazioni, la diversificazione degli impieghi e, soprattutto, la disgiunzione tra status e reddito hanno reso praticamente irriconoscibile la borghesia come classe?

In realtà per rintracciarla oggi occorre puntare l'attenzione sugli aspetti non-economici che la caratterizzano e che sono stati, nell'epoca delle grandi trasformazioni socio-economiche del passato, il suo vero punto forte, e cioè l'esistenza di un "ethos" specifico. Da Max Weber (autore de L'etica protestante e lo spirito del capitalismo) in poi, l'epopea della borghesia si intreccia con la definizione di codici di comportamento e di valori che potremmo riassumere nell'etica borghese.
Vituperata e irrisa da rivoluzionari di ogni risma, a destra quanto a sinistra, l'etica borghese, anche nella attuale poliedricità normativa, in cui ogni individuo è artefice e referente unico e indiscutibile della propria morale, mantiene ancora un senso: quello del "self-restraint" , del limite e dell'appropriatezza, del rispetto delle regole e delle norme, nonché al merito individuale. Per queste caratteristiche la borghesia ha fornito il nocciolo della classe dirigente nei paesi industrializzati, compreso il nostro.

Questa funzione è facilitata per un verso, ma complicata per un altro, dal suo essere diventata ormai un ceto sociale "diffuso". La borghesia ha espanso i suoi confini in alto e in basso diventando quella classe generale, onnicomprensiva come già preconizzava l'abate Sieyès agli albori della Rivoluzione francese quando alla domanda che dava il titolo al suo pamphlet Cos'è il terzo stato, rispondeva: «Tutto».
Ma allora era anche "nulla" perché non aveva rappresentanza ed era esclusa dalle leve del comando. Oggi la profezia di Sieyès si è avverata, e la borghesia è tutto. Ma la sua dilatazione ha offuscato la sua funzione di classe dirigente E questo è particolarmente vero in Italia perché si sono isteriliti nel tempo i "luoghi" della formazione. Perché i luoghi in cui venivano formati e selezionati i futuri dirigenti - grandi banche ed industrie attraverso i loro uffici studi, nonché l'associazionismo politico e sindacale (ed ecclesiale, nello specifico italiano) - sono scomparsi. Lo stesso vale per il percorso dell'alta formazione, una volta spazzate via dal '68 le rappresentanze universitarie ed esplosa l'istruzione superiore senza creare poli di eccellenza, contrariamente alle Grandes écoles francesi, all'Oxbridge inglese, o alla Ivy League americana, fucine della classe dirigente di quei paesi.

Chiuso da molti decenni il canale universitario, tramontate le esperienze promosse di quella che venne chiamata la borghesia illuminata, prosciugati i partiti e le altre associazioni, la classe dirigente italiana non ha più avuto alcun percorso comune né alcun terreno riconoscibile. Se a questa serie di fenomeni aggiungiamo il tramonto dell'etica classica della borghesia e lo sfrangiamento stesso dei contorni di questa classe, vediamo come il connubio borghesia-classe dirigente sia entrato in corto circuito. Molti fusibili sono saltati, con gravi danni per il paese. Il peggiore, a parere di chi scrive, sta in una sorta di indifferentismo etico, di mancanza di rigore e, specularmene, di autoindulgenza per ogni comportamento disinvolto o addirittura contrario alle norme: tutte carenze che intaccano il prestigio e l'autorevolezza di un ceto sociale e quindi, al fondo, la sua legittimità a governare.

Certo, tentativi di contrasto e di inversione di tendenza rispetto a questo trend non mancano (ed è doveroso ricordare anche qui la coraggiosa iniziativa della Confindustria contro i ricatti delle mafie ai propri associati). Tuttavia non fanno massa critica. Non innescano, per ora, un percorso virtuoso di recupero dell'orgoglio di appartenenza per la via impervia dell'etica attraverso l'invocazione del rigore e la primizia del merito, il rispetto delle regole e la dirittura personale.

22 settembre 2009
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