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Il facile populismo contro superbonus e speculazione

di Guido Tabellini

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22 settembre 2009


Si è discusso molto di quali sono state le principali cause della crisi finanziaria, e di cosa fare per evitare che succeda di nuovo. Ora è il momento di passare dalle parole ai fatti. Ma sebbene vi sia ampio consenso sui principi generali, il rischio di fare troppo poco, o di fare le cose sbagliate, è alto.
Vi è innanzitutto una difficoltà politica. I governi sono incalzati su due fronti. Da un lato, devono mostrare all'opinione pubblica che stanno davvero facendo qualcosa per moderare gli eccessi passati e "dare una lezione" ai responsabili. Sul fronte opposto, gli interessi della finanza premono per evitare che la competitività della loro industria sia danneggiata. In questa situazione, il rischio più serio è il populismo: interventi appariscenti per placare l'opinione pubblica, che però non rimuovono le distorsioni di fondo.
La questione dei tetti ai compensi dei manager, sollevata dai governi europei in vista del G-20, ne è un esempio. Non c'è dubbio che anche il sistema dei compensi vada rivisto, e che abbia incoraggiato un'eccessiva assunzione di rischi. Ed è vero che compensi troppo elevati nell'industria finanziaria possono essere controproducenti, perché distolgono i talenti da altre professioni con più elevato valore sociale. Tuttavia i limiti ai compensi dei manager sono un rimedio poco efficace che non centra il nocciolo del problema.

Prima ancora che con i manager, infatti, bisognerebbe prendersela con gli azionisti. Sono loro che nominano i consigli di amministrazione e che non hanno impedito gli errori. Se ciò è accaduto, non è solo perché l'azionariato è diffuso tra piccoli risparmiatori disattenti. È anche perché una leva finanziaria troppo elevata induce anche gli azionisti ad assumere rischi. Come si è visto, se un euro di capitale sostiene 30 o 40 euro di investimenti, le perdite ricadono sui contribuenti, non sugli azionisti. Per rimuovere questa distorsione, la strada maestra è porre limiti ben più stringenti alla leva finanziaria. Ma costringere le banche a detenere più capitale equivale a imporre una tassa sui bilanci delle banche. E ciò è ben più impopolare di un tetto ai compensi dei manager, anche perché farebbe salire il costo del capitale per tutta l'economia e non solo per le banche.

Limitare i compensi dei manager è poco efficace anche perché non è detto che indurrebbe a cambiare comportamenti. Se per massimizzare il valore della banca e far contenti gli azionisti servono investimenti più rischiosi, un bravo manager continuerà a inseguire il rischio, con o senza bonus multimilionario. Per indurlo alla prudenza, magari a scapito degli interessi degli azionisti, occorre che egli sia costretto a subire un costo elevato se le cose vanno male. Cioè, più che preoccuparci di quanto grandi sono i bonus, dovremmo insistere perché anche i manager siano coinvolti nelle perdite, e che la loro responsabilità duri a lungo nel tempo.
Un secondo esempio di come il populismo possa indurre a mancare il bersaglio sono le battaglie contro la speculazione e gli strumenti derivati. Anche gli speculatori, insieme all'avidità dei manager, sono spesso additati all'opinione pubblica come i colpevoli della crisi.
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In realtà, i derivati scambiati in mercati con una struttura centralizzata hanno resistito bene alla crisi, svolgendo correttamente la loro funzione di consentire agli operatori di coprirsi contro il rischio o di anticipare le tendenze future. I veri problemi riguardano gli strumenti scambiati over the counter, cioè senza un'unica controparte centralizzata, che hanno amplificato i rischi e propagato la crisi dalle istituzioni più deboli a tutto il sistema. È qui che bisognerebbe intervenire, costringendo le banche a istituire mercati centralizzati o imponendo requisiti minimi di capitale a fronte degli scambi. Ma anche questi rimedi si scontrano con gli interessi delle banche. È più facile allora prendersela con gli speculatori.
Alle difficoltà politiche si aggiungono ostacoli tecnici. Se già prima della crisi vi erano banche troppo grandi per fallire (o addirittura per essere salvate), il consolidamento del sistema bancario e l'iscrizione a bilancio di voci che erano fuori dai bilanci ufficiali ha peggiorato la situazione. Ora alcune banche sono diventate ancora più grandi. Come evitare che la crisi di uno di questi colossi diventi di nuovo una crisi sistemica? E se non lo si può evitare, come correggere gli incentivi distorti che questo comporta? La risposta a queste domande, per quanto essenziali, è ancora incerta.
Vi è ampio consenso sull'esigenza di prestare meno attenzione al rischio idiosincratico a cui sono esposte le singole istituzioni finanziarie, cercando invece di prevenire l'accumularsi del rischio sistemico. L'attuazione di questi principi è assai più controversa. Sia gli Stati Uniti che l'Europa vorrebbero attribuire questa responsabilità a un'autorità di politica economica. Ma con quali strumenti? E come decidere in pratica quando è il momento di intervenire? L'introduzione di elementi di contro-ciclicità nei requisiti minimi di capitale è uno strumento possibile. Ma come combinare regole automatiche con decisioni discrezionali delle autorità? La difficoltà di dare risposte soddisfacenti si scontra con l'urgenza delle domande.
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22 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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