Diciamolo subito: l'antiberlusconismo non ha responsabilità per l'aggressione al presidente del Consiglio. Dal gesto di uno psicolabile non si può cavar granché come analisi politica: ma si può cogliere l'occasione per riflettere sull'antiberlusconismo nella fase finale di questo ciclo politico.
Un antiberlusconismo, quello di oggi, ben diverso da quello delle origini. Nel 1994 i temi del populismo, del conflitto d'interesse, del partito di plastica, della discesa in campo per salvare le proprie televisioni, c'erano già tutti. C'era la delegittimazione dell'avversario, accusato di porsi al di fuori del normale gioco politico, bollato, lui e i suoi adepti, come antropologicamente diversi. Eppure anche dopo la vittoria di Berlusconi, il clima era diverso. C'era la rivolta dei magistrati per il decreto Biondi, ma in parlamento alcuni provvedimenti (costituzione delle Autorità di regolazione, privatizzazioni) ebbero consenso bipartisan. Emblematica una vicenda legata al disegno di legge sulla riforma delle pensioni: su un appello che avevo redatto insieme a Franco Modigliani, in cui si attaccava la protesta sindacale «unita in un atto miope contro le generazioni future che non votano e non scendono in piazza», riuscivo a raccogliere anche le firme di Prodi e Sylos Labini. Nel 1996, i titoli con cui i principali giornali annunciavano la vittoria dell'Ulivo, non celebravano con enfasi una restaurazione, prevedevano compostamente il ritorno alla normalità.
Ma se normalità significa cercare di guardare avanti, per superare i problemi del paese, quale era l'obiettivo della Bicamerale, allora il rifiuto è pregiudiziale: un accordo è un inciucio, D'Alema è prima il "Dalemone" dell'Espresso, poi l'uomo che trama per far cadere Prodi. Giustizia, conflitto d'interessi, tv, sono trincee su cui l'Ulivo consuma una vita stentata. L'antiberlusconismo si esalta nella sconfitta, in quella del 2001 trova il suo terreno di cultura: frustrazione e risentimento, critica dall'interno a una classe dirigente incapace di battere Berlusconi. I girotondi combattono non per un programma migliore, ma contro il "caimano" pronto a divorare le istituzioni, incominciando dalla giustizia. Tra il Furio Colombo e il Gianni Vattimo con cui nel 2001 polemizzavo sull'Unità, e il Marco Travaglio di oggi, la differenza sta nella statura dei personaggi, e non è poco, ma il genoma è lo stesso. Anche le ragioni addotte contro Berlusconi in questi quindici anni, a volte perfino le parole usate, sono quelle dell'opposizione a Craxi nei quindici anni precedenti. «La compagnia di giro – dice Luca Ricolfi al Riformista – si diverte a cercar prove per una verità che presume di conoscere già». Allora come oggi cerca, nella contrapposizione, le convinzioni etiche ed estetiche in cui riconoscersi.
L'antiberlusconismo ha bisogno di Berlusconi, dei conflitti d'interessi e delle leggi ad personam, di televisioni e ville, di avvocati ed escort, di stallieri e pentiti. Ma se l'obiettivo politico non è liberarsi di Berlusconi, ma dare una risposta alle esigenze del paese, allora è necessario capire le ragioni del suo eccezionale successo. Capire che nel '94 non si è prodotto un vulnus che chiede di essere sanato, ma che sono saltate gerarchie culturali durate mezzo secolo, e che è impensabile ripristinarle. Capire che il consenso di cui Berlusconi gode nonostante (nonostante?) tutto ciò che di lui si dice, dà la misura di quanto sia profonda l'insofferenza e radicato il rifiuto proprio di quelle culture e di quelle convinzioni che l'antiberlusconismo vorrebbe restaurare. La misura di quanto sia sentita l'esigenza di superare il compromesso politico da cui è nata la Costituzione, di rivedere i rapporti tra poteri di governo, parlamento, enti locali, ordine giudiziario, amministrazione.
Tra il 1972 e il 1990, la decina di tentativi di dare un inquadramento legislativo alla televisione commerciale furono tutti affondati da una pregiudiziale: per fondare il nuovo è prima necessario ripristinare le condizioni precedenti, «non si può fotografare l'esistente». Allo stesso modo oggi, chiedere prioritariamente il ristabilimento delle condizioni quo ante significa non capire che il berlusconismo ha messo fuori gioco culture e messo in gioco aspettative, significa rendersi indisponibili alle innovazioni possibili nella fase finale della sua parabola. È anche a causa delle ipoteche poste dall'antiberlusconismo, se sembra che manchi un'opposizione, e che manchino i leader.