Forse ci voleva proprio la più grave crisi economica degli ultimi ottant'anni per costringere l'industria dell'auto di tutto il mondo a fare i conti con i problemi di fondo che si porta dietro da troppo tempo, ed è già un miracolo che la Fiat sia tra i costruttori in grado di giocarsi una seconda chance di rilancio. Per sfruttare questa opportunità ci vuole coraggio e realismo: il coraggio di guardare in faccia alle difficoltà senza ipocrisie, a partire dalla sovracapacità produttiva, e di promuovere il cambiamento in una logica di sviluppo capace di coniugare il rigore economico con la responsabilità sociale. Sull'auto l'America di Obama ha saputo trovare il coraggio di cambiare, l'Europa molto meno. «Per una volta - ha detto ieri con fierezza l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne nel suo intervento a Palazzo Chigi davanti al governo e ai sindacati - vorremmo che fosse l'Italia a diventare l'esempio di come questi cambiamenti si possono realizzare con successo».
Il futuro dello stabilimento Fiat di Termini Imerese è oggi il cuore dei problemi industriali, economici e sociali che stanno davanti all'industria dell'auto in Italia, ma se non si considera il contesto in cui essa si colloca non si può capire l'esatta portata della sfida. Questa non è la partita della Fiat ma è il banco di prova dell'intera classe dirigente del paese: della sua industria leader ma anche dei sindacati e soprattutto del potere politico. Si è spesso sostenuto che per voltare pagina l'Italia e il Sud hanno bisogno di sviluppo e non di assistenza: il caso di Termini Imerese è l'occasione per dimostrarlo. Con orgoglio la Fiat ha detto ieri di voler rispondere alla crisi con la crescita e ha illustrato un piano «ambizioso» per crescere in Italia senza chiedere un euro allo stato, ma Torino non può fare tutto da sola e la politica di sviluppo è una sfida che richiede l'impegno di tutti.
Soprattutto di questi tempi, otto miliardi di investimenti e 11 nuovi modelli in due anni per alzare la produzione di auto Fiat dalle 650mila vetture di oggi a un range compreso tra le 800mila e un milione di unità in tre anni sono musica per un paese che ha voglia di ritrovare il sentiero della crescita. Ma molto meno incoraggianti sono i confronti internazionali interni allo stesso pianeta Fiat: in Polonia un unico stabilimento produce, con meno di un terzo degli addetti, circa gli stessi volumi di vetture dei cinque stabilimenti di Fiat Auto in Italia, e in Brasile un solo impianto Fiat arriva a produrre 730mila vetture l'anno con 9.400 persone contro i 30mila dipendenti in Italia che ne producono in tutto 650mila. Non è un problema di efficienza ma di saturazione e utilizzo degli impianti, ma è evidente che questa situazione non è sostenibile.
Crescere sì e crescere anche in Italia, ma un'industria ha un futuro solo se è competitiva. Oggi Termini Imerese non lo è perché ogni vettura prodotta nello stabilimento siciliano della Fiat costa all'azienda mille euro in più di quanto accada nella sua fabbrica polacca. Non è una questione di bassa produttività ma di sovraccosti della logistica e di assenza di un indotto industriale. Marchionne dice che è inutile insistere sull'auto a Termini e che lì dal 2012 la Fiat non produrrà più vetture ma è pronta a collaborare alla riconversione industriale dell'impianto o a metterlo a disposizione. Così come vuole affrontare fino in fondo i problemi di Pomigliano, per il quale si immagina un altro futuro se anche sindacati e potere politico faranno la loro parte. Chissà come sarebbe stata la storia della Fiat se si fosse ragionato così anche quando l'Iri mise in vendita l'Alfa Romeo. Ma erano altri tempi. Oggi la Fiat gioca a tutto a campo e respinge con orgoglio e con dati alla mano ogni accusa di assistenzialismo. Ieri Marchionne ha battuto un colpo. Adesso tocca a tutti gli altri.