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EXIT STRATEGY / Una politica industriale 2.0

di Fabrizio Onida

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23 febbraio 2010

È una buona notizia l'annuncio del ministro Claudio Scajola che il governo, decidendo di non rinnovare gli incentivi all'auto (salvo ripensamenti a livello europeo), intensificherà il sostegno a ricerca e innovazione.
Forse la notizia non sembrerà altrettanto buona a quella parte dei sindacati e delle imprese che hanno sempre contato su incentivi a pioggia (al Nord come al Sud) come lubrificante per la crescita della domanda e dei profitti. Ma le stesse analisi del ministero dello Sviluppo economico (Mise), dove sono censite 91 diverse fonti d'incentivi a livello nazionale (articoli di leggi e decreti delegati), a cui si aggiunge una batteria di 1.216 incentivi a livello regionale, riconoscono «una ridondanza del sistema, fenomeni di sovrapposizione e duplicazione degli strumenti di agevolazione, una polverizzazione d'interventi che si traduce in diseconomie nell'utilizzo delle risorse finanziarie» (Relazione sugli interventi di sostegno alle attività economiche e produttive, giugno 2009, pagina 55).

Diversi confronti tra le decisioni d'investimento da parte delle imprese beneficiarie degli incentivi (contributi a fondo perduto dalla legge 488/1992 e crediti d'imposta su spese in conto capitale dalla legge 388/2000) con quelle di un campione di controllo d'imprese non beneficiarie portano a concludere che gli incentivi non hanno sostanzialmente alterato il corso degli eventi (G. de Blasio e F. Lotti della Banca d'Italia, La valutazione degli aiuti alle imprese, il Mulino, 2008) o comunque hanno avuto un impatto alquanto contenuto (Mise), soprattutto per le imprese di maggiori dimensioni.

Le stesse analisi sul robusto campione d'imprese della Banca d'Italia confermano l'assenza d'effetti degli incentivi sulla crescita della produttività che - come noto - rappresenta un pesante handicap dell'Italia nei confronti internazionali.

Più ottimistiche sono le analisi ministeriali sull'efficacia dei contributi ex ante a progetti d'innovazione (Fondi Fit e Far), un po' meno sull'effetto addizionale degli incentivi fiscali automatici, i quali necessariamente giungono ex post come i crediti d'imposta su acquisto di beni strumentali o su spese in ricerca e sviluppo (Mise, Strumenti automatici e valutativi nelle politiche di incentivazione alle imprese, settembre 2008).

La stessa Confindustria si è peraltro dichiarata favorevole al riesame critico che la Commissione europea intende svolgere sugli aiuti di stato, alla luce delle drammatiche conseguenze della crisi economica in corso, consapevole che in un'eventuale guerra dei sussidi fra stati membri «l'Italia potrà risultare solo soccombente e la sua industria penalizzata» (audizione alla commissione Attività produttive della Camera, 22 luglio 2009).

Allora cancelliamo dal vocabolario il termine "politica industriale", come vorrebbero alcuni economisti convinti che i governi sono sempre più ignoranti del "libero mercato" di cui quindi non bisogna tentare d'influenzare le scelte? O ci accontentiamo di autocelebrare i successi (indiscutibili, s'intende) delle nicchie d'eccellenza del made in Italy?

No: si tratta non d'abolire, ma di ridisegnare la politica industriale del nostro paese, alla luce delle moderne teorie dello sviluppo e dell'innovazione (ad esempio, Rodrik-Hausmann, Acemoglu, Sachs, Nelson-Winter) e con uno sguardo spassionato alla storia e ai dati. Fra questi ultimi ci mettiamo sia la perdita di competitività dell'Italia, dovuta alla crescita persistentemente bassa della produttività, sia la progressiva compressione dei margini di profitto a cui sono ormai da tempo costrette le nostre imprese esportatrici, sotto la pressione della concorrenza e dell'euro forte (si veda anche l'ultima newsletter Punto sul Corporate di UniCredit Group), sia la non lieve flessione delle quote dell'Italia sulle esportazioni mondiali.
Per inciso, l'andamento di queste quote va visto e interpretato a partire almeno dalla metà degli anni 90, non dal solo 2000, anno in cui erano già cadute di più di mezzo punto percentuale per vari effetti di composizione del commercio mondiale durante la "bolla internet".

Come ha bene argomentato Romano Prodi nella sua lectio magistralis a Pisa il 12 febbraio scorso, «dobbiamo costruire una politica industriale incentrata sulle nostre caratteristiche, sulle filiere nei settori molto specializzati dove siamo forti. Abbiamo una debolezza molto significativa nei settori fortemente innovativi. Il nostro programma di Industria 2015 aveva un orizzonte giusto, decennale, perché questi processi hanno bisogno di un obiettivo a lungo termine. Dobbiamo investire nell'aggregazione fra grandi e piccole imprese, nei centri di ricerca, rendere conveniente la trasmigrazione fra università, centri di ricerca, sviluppare tecnologie innovative».

Aggiungiamo: abbiamo sempre più bisogno di mutuare dai maggiori concorrenti avanzati una "cultura della valutazione", che si avvale di agenzie indipendenti (dal governo e dalle categorie produttive) per sottoporre a continuo monitoraggio e credibili analisi d'impatto i (troppo) numerosi interventi di politica economica mirati all'industria e ai servizi.

23 febbraio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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