Nel 1992 fu approvato il Trattato di Maastricht che, per la prima volta nella storia dell'umanità, introdusse dei parametri riferiti al debito e al deficit pubblico da rispettare per far parte della progettata Unione monetaria. L'idea di buon senso era che il rispetto di quei vincoli avrebbe reso più "forte" l'Unione stessa, soprattutto evitando fenomeni di free riding (chi si avvantaggia di partecipare a un club scaricando sugli altri un po' dei suoi guai). Nei confronti di chi non avesse rispettato quei patti, erano previste ammende. Con il senno di poi, questa norma delle ammende sembra cosa poco seria: qualcuno ha forse proposto di multare la Grecia?
In realtà, nei confronti della Grecia è stato proposto tutto e il suo contrario. È stato scritto che la cosa più semplice era lasciarla fallire: rinnegare il debito pubblico eccessivo era semplicemente il male minore. Ma si è anche proposto che, come qualsiasi paese dell'Africa centrale, dovesse essere affidata alle cure del Fondo monetario internazionale, che ha una lunga esperienza di come curare paesi arretrati che hanno troppo debito pubblico e scarsa produttività. Infine, si è anche letto che la soluzione migliore fosse un'altra: una rapida uscita della Grecia dall'euro, una sua successiva forte svalutazione, seguita da un altrettanto rapido rientro nell'euro.
Non è divertente tutto ciò? In realtà, un problema serio c'è, ma forse proprio per questo ne siamo stati tutti alla larga. Qualcuno si ricorda quella che tanti anni fa fu chiamata "l'aritmetica di Maastricht"? È molto semplice. Per capire come possano coesistere i due vincoli fissati nel Trattato - un tetto al 3% del Pil per il deficit pubblico annuo e un tetto al 60% del Pil per lo stock complessivo di debito pubblico - bastava inserire quei due numeri in un'equazione che assumesse un tasso d'inflazione annuo del 2% e un tasso di crescita annuo del Pil reale del 3 per cento. È quest'ultimo numero l'aspetto da sottolineare. Quanti sono i paesi della zona euro che negli ultimi dieci anni hanno sempre mantenuto un tasso di crescita del Pil reale pari o superiore al 3 per cento? E quanti l'hanno fatto negli ultimi cinque anni? Quanti lo faranno nei prossimi cinque anni? Riuscendo anche a garantire un deficit pubblico sotto il 3 per cento? L'Italia appartiene per caso a qualcuno di questi gruppi di paesi?
Sono, com'è ovvio, tutte domande retoriche. Di quel 3% di crescita annua del Pil che sembrava un dato normale vent'anni fa si è ormai persa ogni traccia, e non è neppure più l'obiettivo dei nostri governi. I quali tutti rischiano solo di combinare guai se provano a tagliare troppo rapidamente i deficit pubblici e così facendo frenano ulteriormente il Pil e quindi fanno ancora peggiorare il rapporto deficit-Pil.
Servirebbe almeno essere consapevoli del problema e tenerne conto nel disegnare sentieri d'equilibrio del debito pubblico dall'appropriato profilo temporale e con altrettanta importanza attribuita all'obiettivo della crescita.
In conclusione, dalla crisi di questi giorni si esce con un riequilibrio che richiederà molti anni. Iniziamolo questo processo, e soprattutto avvertiamo i nostri figli che toccherà loro completarlo.