Dove si realizza oggi il vero teatro dell'assurdo? Ora che i testi di Ionesco (il quale contestava la definizione), di Beckett, con tutto il loro carico novecentesco di provocazione sembrano divenuti registrazione dell'esistente, non più assurdo ma normale, dove si può assistere a una bella pièce etichettabile come dell'assurdo?
Provate ad andare a pranzo con un po' di docenti universitari. Come è capitato a me. Brave persone, di buon livello di carriera, di diversi atenei e discipline. Fateli parlare per un po'. Dei concorsi, delle leggi da interpretare, degli espedienti (di bilancio, di regolamento, eccetera) per campare e tirare avanti. Vi troverete proiettati in un mondo surreale. Dove sarà difficile capire quali sono, se vi sono, agganci alla realtà nelle cose di cui vi parlano. Un intrico di leggi, regolamenti, abitudini, norme non scritte ma ferree. Un gergo spesso quasi iniziatico. L'evocazione di rituali.
Eppure si dice: l'università elemento trainante per il paese. Si dice: investire nella ricerca. Si dice: modernizzare. Beh, scusate l'impressione e l'intrusione, ma a me pare che siamo al delirio. Sento parlare di "fallimento del 3+2", la suddivisione in laurea breve e specialistica. Ma come, è appena andato faticosamente a regime?
Sbocconcellando una pizzetta, un giovane e lucido docente di un ateneo milanese dice: «Era una riforma che non teneva conto del contesto, del mercato del lavoro, e i ragazzi han capito che fermarsi al triennio non serve». Oppure, caso più strano e assurdo, sento che parlano di concorso per ricercatori. E penso: una questione importante. Da un pezzo sento e leggo della necessità di svecchiare i ricercatori, di rilanciare la capacità di ricerca, eccetera. Ritornelli di nobili parole. Di appelli in nome dell'Italia perché la ricerca riprenda slancio nel nostro paese.
E dunque, chiedo, come verranno selezionati i nuovi ricercatori? Per titoli, mi rispondono, e già un po' ridacchiano. Come sarebbe per titoli? Ma un giovane all'inizio di una carriera i titoli ancora non ce li ha, o ne ha pochi. E un quarantenne sarà favorito rispetto a un ventiseienne.
E poi, mi spiega Daniele Bassi, presidente di Universitas University e Ordinario al Dipartimento di Produzione vegetale a Milano, non si capisce perché nella prima legge del 2009 si distingua, nel concorso, tra titoli su cui il candidato potrebbe esser chiamato a discutere e pubblicazioni. Cioè si discute sui libri usciti con il nome del candidato e non sugli articoli? O per titoli s'intende quelli firmati solo dal candidato? Il lavoro di équipe conta meno? Boh... Non capisco.
Nel luglio di quest'anno, continua Bassi, è uscito un decreto (89, 28 luglio) che spiega come valutare l'impatto delle pubblicazioni. Evidentemente si punta su questi calcoli un po' astrusi più che sulla valutazione nel colloquio. E così scopro perché il resto della tavola ridacchia. Perché sanno benissimo che i nomi nelle pubblicazioni vengono aggiunti a volte molto alla leggera, e ci sono pubblicazioni e titoli con lunghe sfilze di nomi. E sanno che il boss di una cattedra o di una disciplina può preparare la carriera del suo pupillo mettendone la firma in qua e in là.
Il rischio, insomma, è di avere ricercatori già "vecchi", non veramente valutati dalla comunità scientifica. Qualcuno ricorda che c'era stata una legge, poi abrogata, che cancellava la figura dei ricercatori a tempo indeterminato. Poi quella legge cadde, pare. Così, tra ripensamenti e oscurità, tra grida quasi manzoniane, l'Italia si prepara a scegliere i propri ricercatori. Un capolavoro, insomma. Dell'assurdo. Ma il teatro di quei maestri del 900 era proiettato al futuro. Questa strana pièce invece è ubriaca di passato.