Davvero singolare la sorte del provvedimento di indulto approvato nel luglio del 2006. Ispirato da Giovanni Paolo II, che lo richiamò esplicitamente nel suo discorso in parlamento nel novembre del 2002; sollecitato da una manifestazione dei Radicali nel Natale del 2005 cui parteciparono l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga e il futuro capo dello Stato Giorgio Napolitano; "imposto" dall'abnorme sovraffollamento carcerario, l'indulto venne approvato da oltre due terzi dei parlamentari, come vuole la Costituzione. E, poi, ripudiato da pressoché tutti coloro che lo votarono.
Il provvedimento nasceva già limitato dalla mancata approvazione di un'amnistia che, contemporaneamente all'intervento sulla popolazione reclusa avrebbe potuto ridurre il vertiginoso accumulo di fascicoli processuali, destinati in percentuale rilevante alla prescrizione, dopo aver intasato, i canali giudiziari. Sia chiaro: indulto e amnistia sono misure eccezionali, previste dalla Costituzione, per "liberare" carceri e aule giudiziarie da un sovrappiù di uomini e di pratiche, che ostacolano una decente amministrazione della giustizia. Saggezza vuole, e così è sempre stato, che camminassero insieme. Non così nel 2006. Per giunta, l'indulto - in qualche modo inevitabile - venne approvato in un clima sociale dove la questione dell'insicurezza assumeva un ruolo crescente nei meccanismi che determinano le ansie collettive. E mentre, proprio in quel periodo, accadeva che, lo spazio dedicato alle cronache criminali dal complesso dei telegiornali nazionali cresceva fino a più che raddoppiare. Cosicché l'indulto diventò, rapidamente, il capro espiatorio di tutti i guai della giustizia italiana e la presunta causa dell'aumento dei delitti.
Va detto, innanzitutto, che tale aumento non ci fu affatto: se non per un periodo brevissimo e relativamente ad alcune tipologie di reato. E ciò vale per l'intera fase storica: nel 2008 gli omicidi volontari sono stati 605, mentre erano 1916 nel 1991. Certo, nelle settimane immediatamente successive al ritorno in libertà degli indultati, una parte di essi commise un nuovo reato (recidiva): e questo produsse un autentico corto circuito nell'opinione pubblica. Ma, a distanza di oltre tre anni, un'accurata ricerca condotta da Giovanni Torrente dell'università di Torino dimostra inequivocabilmente che quell'allarme fu comprensibile, ma infondato. Si prenda il dato più significativo, la recidiva: il 28,45% degli indultati ha commesso un nuovo reato. Percentuale elevatissima, tale da segnalare incontrovertibilmente - parrebbe - il fallimento della misura di clemenza, se non vi fosse un piccolo e ineludibile dettaglio: tutte le ricerche nazionali e internazionali concordano nell'indicare come la percentuale di recidiva tra coloro che scontano interamente la pena, senza condoni o misure alternative, è più che doppia.
Una rilevazione dell'Ufficio statistico del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998 abbia fatto reingresso in carcere una o più volte negli anni successivi. Non solo: la ricerca di Torrente evidenzia che, a partire dal 2006, il tasso mensile medio di recidiva diminuisce progressivamente. Ancora: coloro che scontavano la pena in misure alternative (ai domiciliari, per esempio), sono stati recidivi in percentuale inferiore (21,78%) rispetto a chi proveniva dal carcere (30,31%). Si noti, infine, che l'incremento dei detenuti stranieri (circa il 38% dei reclusi) non è dovuto al comportamento recidivante dei soggetti indultati, ma a un progressivo inasprimento del controllo e, in prospettiva, agli effetti dell'introduzione dell'"aggravante per clandestinità". Tant'è vero che, mentre la recidiva tra gli italiani supera il 30%, quella tra stranieri si ferma al 21,36 per cento. Che non è male come colpo inferto a uno degli stereotipi più robusti del senso comune nazionale.
In conclusione quel provvedimento di clemenza ha avuto più di un effetto positivo: certo, la popolazione detenuta - a distanza di tre anni - ha non solo raggiunto il tetto di allora, ma lo ha superato. Si pensi, tuttavia, a cosa sarebbe accaduto in assenza di quell'effetto deflattivo, pur provvisorio: oggi, prevedibilmente, le carceri ospiterebbero, si fa per dire, circa 80mila detenuti. Si ha un'idea di quali sarebbero state le conseguenze di tale super-affollamento?
Più in generale si può dire che un provvedimento, anche così contradditorio come l'indulto del 2006, abbia confermato una verità spesso dimenticata: una concezione dinamica e non rigida della pena - non ridotta alla detenzione in una cella chiusa - può avere effetti pratici assai positivi. Può costituire - lo dico sinteticamente - un contributo alla sicurezza collettiva (meno recidiva) e un vero e proprio risparmio, oltre che sul piano della sofferenza individuale, su quello strettamente economico (meno risorse da destinare alla repressione dei reati e a una custodia carceraria eccezionalmente onerosa).