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DILEMMI MONDIALI / Politica sospesa tra regole e tasse

di Carlo Bastasin

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24 aprile 2010


Il G-20 si riunisce a Washington in un'atmosfera molto diversa da un anno fa. Non è più guidato dalla forza dell'emergenza, non è più il collasso dell'economia a dettarne l'azione. In buona parte del mondo la Grande Depressione è stata superata meglio del previsto. È ora quindi che si misurerà la volontà politica di imparare la lezione della crisi degli ultimi due anni. Kurt Tucholosky diceva che «ogni buco è soprattutto un orlo». È sulla capacità di rimarginare gli orli, di rimediare alle cause della crisi, che il lavoro del G-20 dovrà essere giudicato.
I due temi al centro degli incontri sono gli squilibri globali e la regolazione finanziaria. Contrariamente a ciò che si crede sono l'uno legato all'altro. Il riequilibrio globale si gioca tra Cina (in surplus nei conti con l'estero) e Usa. Dietro le quinte l'amministrazione americana è convinta di avere un accordo con Pechino per la rivalutazione del renminbi. Si parla di un apprezzamento del 4-5% entro due mesi. Piccola cosa, ma grande segnale. Il processo, spiegano al dipartimento del Tesoro, è in corso e potrebbe essere seguito da altre monete asiatiche (Taiwan, forse Thailandia e Corea). La rivalutazione cinese stimolerebbe i consumi anziché l'export riducendo i problemi di bilancia dei pagamenti Usa.
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Ma l'eccesso di risparmio asiatico non è legato solo alla debolezza della domanda interna. La causa originaria è l'accumulo di riserve valutarie a titolo cautelativo avviato dalla Cina dopo la crisi finanziaria del 1997. Per ridurre questa accumulazione è necessario offrire, anche ai cinesi, maggiore stabilità finanziaria. E proprio sulla proposta di regolazione bancaria si misura la credibilità occidentale nel negoziato e la capacità di svolgere ancora un ruolo di leadership globale almeno nella regolazione.
Non c'è ministro o governatore europeo che passi da Washington che non sottolinei la necessità di una correzione comune degli eccessi finanziari e che non aggiunga che questi eccessi hanno origine a Wall Street. Tutto converge perché ora si pongano le basi di una nuova regolazione. L'opinione pubblica americana è furiosa dopo aver conosciuto i dettagli della vicenda Goldman Sachs. Il presidente Obama ha cavalcato le rivendicazioni di risparmiatori e contribuenti che hanno pagato per la crisi. Una proposta al Congresso sembra pronta per l'approvazione.
Tuttavia, come ha notato il capo del Fondo monetario Dominique Strauss-Kahn, le soluzioni sono ancora nazionali, non universali. È necessario frenare una macchina finanziaria che ha sottratto risorse ai cittadini anziché crearne, ma bisogna farlo con un coordinamento globale. Questa seconda lezione della crisi non è stata ancora capita. Troppo forte è la valenza politica perché i governi considerino il settore finanziario per ciò che è anche agli occhi ingenui del cittadino: un gigantesco mercato globale in buona parte fuori controllo, tale da provocare negli ultimi 22 anni una crisi internazionale ogni tre anni.
In una lettera diffusa ieri Mario Draghi, che svolge un ruolo cruciale presiedendo il Financial Stability Forum, invita a riforme tempestive e pone come obiettivo i prossimi due anni. Ma se possibile, già entro la fine del 2010 bisognerebbe ottenere: nuove regole in materia di liquidità e patrimonio delle banche; strumenti per controllare i rischi sistemici; una cornice entro cui risolvere i problemi non nazionali. A Washington i ministri troveranno una proposta dell'Fmi di tassazione delle banche che garantisca risorse per un fondo che dovrà risolvere ordinatamente le prossime crisi. Così che a pagare i costi sia il sistema finanziario, non più il contribuente.
Il Congresso Usa sta discutendo una proposta di tassazione che crei un fondo di emergenza. I repubblicani ritengono che precostituire risorse sia sbagliato e crei un nuovo istituto di salvataggio statale dal costo di 50 miliardi di dollari. L'obiezione riguarda anche il basso costo che le banche fallite pagherebbero per essere salvate. Al tempo stesso, precostituire un fondo è l'unico modo perché a pagare non sia come al solito il contribuente o la banca sana, sopravvissuti alla crisi, ma chi l'avrà causata. Il presidente Obama potrebbe rinunciare al fondo ex ante, pur di avere una nuova legge di regolazione con voto bipartisan che di fatto chiuderebbe l'era di conflitto politico scatenata dalla riforma sanitaria. C'è il rischio dunque che un accordo Camera-Senato non troppo ambizioso sia di vantaggio per il governo, per l'opposizione e per le lobby che circondano il Congresso in queste ore. Per quello che si capisce, sarà una riforma cotta a metà: la tutela del consumatore è confusa, il rafforzamento patrimoniale delle banche è poco ambizioso, la discriminazione delle banche "troppo grandi per fallire" è del tutto insufficiente e la sorveglianza sulle non-banche è inutile senza un serio accordo sovranazionale.
La mancanza di coordinamento globale è il punto cruciale. Uno studio dell'Fmi mostra che misure prudenziali decise localmente per istituti finanziari che hanno rilevanza sistemica globale sono inutili o dannose. Così sarà anche con un'iniziativa americana. Nella finanza il rischio sistemico ha scala globale e su tale scala andrebbe governato. Non tutti i paesi del G-20, poi, condividono la soluzione fiscale alla crisi. Canada (presto alla presidenza del G-20) Australia e Giappone non vedono ragione di tassare le proprie banche che non hanno contribuito alla crisi. Così preferiscono intervenire sulle regole, aumentando i requisiti di capitale delle banche. Nelle ultime settimane tuttavia la proposta di una tassa ha guadagnato consensi nei paesi emergenti.
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24 aprile 2010
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