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VERSO LE ELEZIONI / Sul Tamigi in cerca di politica estera

di Andrea Romano

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24 aprile 2010

Nonostante le apparenze, la Gran Bretagna è una nazione tutt'altro che sicura del proprio ruolo nel mondo. In una celebre battuta di Tony Blair: «La Germania ha perso la guerra ma è riuscita è superare il trauma; la Francia ha quasi perso la guerra ma è riuscita a superare il trauma; noi invece abbiamo vinto la guerra, ma non siamo ancora riusciti a superare il trauma». È stato vero per gran parte della seconda metà del Novecento, se ricordiamo il prezzo che Londra ha pagato all'incertezza mostrata fin dall'inizio verso il progetto dell'Europa comunitaria. Ma continua ad esser vero anche nel 2010, quando la Gran Bretagna fatica a trovare la strada per recuperare quello status di cui ha goduto dalla metà degli anni Novanta soprattutto all'interno della comunità euroatlantica. Oggi non è più il partner privilegiato dell'amministrazione Usa, che avendo ridimensionato l'importanza del perimetro europeo non richiede più l'uso esclusivo del perno britannico per proiettarsi sul continente, mentre continua a rimanere ai margini dell'Unione e ha subìto dall'impatto della crisi economica un forte ridimensionamento del ruolo di motore esterno della crescita.

Sullo sfondo di questa incertezza di status, chi volesse trovare una prospettiva convincente nelle parole dei tre candidati alla guida di Downing Street sarebbe deluso. Se n'è avuta conferma giovedì sera, quando sugli schermi è andato in onda il secondo confronto diretto, dedicato ai temi di politica internazionale. Nessuno dei tre leader ha offerto indicazioni decisive su quello che dovrebbe essere il nuovo ruolo internazionale del paese.

David Cameron ha confermato la ritrovata forza dell'antieuropeismo conservatore, avendo scelto di concedere proprio su questo tema ampio spazio al nostalgismo thatcheriano in cambio del sostegno ricevuto sull'innovazione nel campo dei diritti civili e dei servizi pubblici. Il risultato è la possibilità che un futuro primo ministro Tory si riveli del tutto disconnesso dai suoi colleghi conservatori continentali proprio sui nodi futuri dell'Unione Europea.

Dall'altra parte Gordon Brown ha difeso le formule classiche del lungo ciclo di governo neolaburista: l'europeismo pragmatico di chi non è riuscito a far compiere fino in fondo alla Gran Bretagna quel salto in avanti verso l'Unione promesso nel 1997, ma che nondimeno ha definitivamente archiviato l'antieuropeismo con il quale il suo partito aveva convissuto a fasi alterne fino alla fine degli anni Ottanta; la determinazione a combattere attivamente il terrorismo fondamentalista in patria e all'estero, con una retorica degna dell'interventismo democratico di marca blairiana; la tradizionale fiducia in una solida alleanza con gli Stati Uniti. Eppure persino le rassicuranti formule del (troppo) rassicurante Gordon Brown avevano un che di inadeguato rispetto alla nuova debolezza internazionale della Gran Bretagna, che certo non potrà trovare conforto nel ritorno alle glorie del passato recente.

Tra i tre, tuttavia, il più lontano dall'apparire convincente è stato Nick Clegg. Il quale ha interpretato fino in fondo il nuovo ruolo di "rockstar della politica britannica", come lo ha ribattezzato Philip Stephens, scegliendo l'eccesso come bussola di navigazione tra i temi internazionali. Ha dunque rivendicato un filoeuropeismo largamente sovrabbondante per un'opinione pubblica che deve ancora accettare i vincoli dell'integrazione comunitaria, così come ha flirtato con un antiamericanismo a sfondo pacifista che forse lo renderà popolare con i settori più radicali dell'elettorato laburista ma non ha alcuna possibilità di essere tradotto in una vera agenda di governo.

A meno di due settimane dal voto, dunque, la Gran Bretagna si prepara a dotarsi di un governo che difficilmente sarà in grado di infondere nuova energia ai rapporti tra Londra e la comunità internazionale. Un ciclo storico si è definitivamente concluso, quello di un partito laburista che anche in caso di alleanza forzata con i liberaldemocratici non sarà in grado di dare il proprio segno ai prossimi anni, mentre si fatica a comprendere la direzione che dal 6 maggio sarà impressa alla nuova stagione. E allora è forse il caso di rassegnarsi, a malincuore, a una Gran Bretagna politicamente più debole costretta ad assistere dalla tribuna a quel gioco internazionale di cui talvolta è riuscita ad essere protagonista.

24 aprile 2010
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