Al di là delle buone intenzioni, il dialogo tra maggioranza e opposizione rischia di consumarsi per manifesta inconsistenza della materia. Ad oggi non è affatto chiara la vera sostanza della possibile cooperazione riformatrice tra Pdl e Pd, perché finora nessuno ha spiegato su quali concrete partite legislative dovrebbero convergere gli sforzi dei volenterosi dei due schieramenti. Le riforme istituzionali? Una nuova legge elettorale? Un coraggioso progetto in campo educativo o universitario? Nell'attesa, si rafforzano gli opposti massimalismi di coloro che prosperano nello statu quo mentre si moltiplicano i riflessi condizionati che originano da scenari visti già troppe volte nella nostra storia recente: «No all'inciucio», «Sì alla politica come ricerca del compromesso», «Lavoriamo per il bene del paese», eccetera.
Proviamo invece a immaginare che maggioranza e opposizione, o per lo meno le loro componenti più avvedute, scelgano di ridimensionare le velleità epocali di una "grande riforma" che questo parlamento evidentemente non ha nel suo carniere. E si adattino invece a un pacchetto di scambio meno roboante, ma capace di sbloccare concretamente lo stallo verso il quale si avvia la seconda parte della legislatura. Lo scambio dovrebbe muovere da due considerazioni preliminari.
La prima è l'esistenza di un conflitto permanente tra questo potere giudiziario e questa presidenza del consiglio: una forma di accanimento reciproco a cui è urgente trovare una soluzione, quanto meno transitoria.
La seconda considerazione riguarda l'assoluta rilevanza che in Italia assume ogni decisione politica che abbia come oggetto il settore radiotelevisivo. Si può davvero pensare, ad esempio, che la riduzione per via amministrativa del tetto pubblicitario ai canali Sky non abbia un lampante senso politico, tale da falsare i meccanismi della concorrenza in una stagione segnata dalla concentrazione delle leve di comando dell'informazione televisiva? Anche guardando a quest'ultimo provvedimento, è evidente lo squilibrio ulteriore che nel corso dell'ultimo anno si è prodotto all'interno del mercato radiotelevisivo.
Su questo sfondo, lo scambio sarebbe possibile e a portata di mano. Da una parte la concessione di una sospensione del giudizio per le più alte cariche, nel quadro della ricerca di una più serena coesistenza tra i poteri dello stato. Ma dall'altra il riconoscimento di una sorta di "status speciale" per ogni iniziativa politica che incroci l'ambito radiotelevisivo. Nel concreto, si tratterebbe innanzitutto di procedere urgentemente alla privatizzazione di almeno due canali Rai, allo scopo di aprire il mercato a un altro attore imprenditoriale nazionale o internazionale. E in parallelo di elevare i provvedimenti che riguardano il mercato radiotelevisivo a un rango di carattere istituzionale, tali dunque da richiedere ogni volta la ricerca del più ampio consenso tra maggioranza e opposizione.
Si tratterebbe forse di uno scambio di natura mercantile, privo della nobiltà che colleghiamo all'aspirazione di un più ampio disegno di riforma istituzionale? È probabile. Ma se da una parte guardiamo a dove è precipitato il confronto parlamentare sulle grandi riforme, e se dall'altra ricordiamo il raccolto ben scarso che negli ultimi anni è stato ottenuto dai maestosi e fallimentari tentativi per riscrivere insieme le regole, è legittimo immaginare uno scambio politico di modesta vocazione ma di grande efficacia potenziale. Perché un accordo di questa natura punterebbe a sciogliere i due nodi sui quali si è impantanata ogni prospettiva di riforma condivisa: da una parte la sensazione di vulnerabilità giudiziaria che ha militarizzato il campo berlusconiano e dall'altra il potenziale di squilibrio democratico che si è ormai accumulato tra conflitto d'interessi e duopolio radiotelevisivo. È davvero troppo poco per un disegno di "grande riforma"?