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L'America ad Haiti leader necessario

di Giuliano Amato

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24 gennaio 2010

Mai come in questi anni si è tanto discusso di governance globale e di come realizzarla in un mondo ormai multipolare, nel quale - si dice - gli Stati Uniti devono abituarsi a condividere con altri le scelte e le decisioni che riguardano le sorti comuni e quelle delle zone di crisi.

Ora i tragici giorni di Haiti, i giorni nei quali in quel piccolo pezzo di mondo è accorso il mondo intero per aiutare i sopravvissuti al terremoto, ci mostrano la governance di cui al momento è capace la comunità internazionale.
È uno specchio deformante quello di Haiti, segnato da tutte le asperità di una situazione eccezionale e drammatica. Ma nei suoi tratti essenziali è uno specchio fedele. Ci sono tutti, ci sono le Nazioni Unite, l'Europa con i suoi stati membri, l'Italia con il suo Bertolaso, il Brasile, la Cina e ovviamente gli Stati Uniti. E tutti sembrano condividere una preoccupazione prioritaria, quella di realizzare un efficace coordinamento, di suddividersi il lavoro, di evitare di aggiungere caos a caos, di muoversi insomma secondo un governo comune.

T utti sembrano condividere una preoccupazione prioritaria, quella di realizzare un efficace coordinamento, di suddividersi il lavoro, di evitare di aggiungere caos a caos, di muoversi insomma secondo un governo comune.

Palazzo Chigi informa che Bertolaso si è recato ad Haiti per coordinare i soccorsi in arrivo dall'Italia e per concorrere al coordinamento europeo. Bruxelles informa che è attivo ad Haiti il suo meccanismo di coordinamento, con squadre ad hoc per assicurare scambi informativi e rapporti operativi fra i ventidue stati membri presenti con i loro aiuti. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, riferendo alla stampa della sua visita ad Haiti del 17 gennaio, sottolinea che il suo primo scopo era quello di coordinare gli aiuti che stavano arrivando e di coordinare altresì la missione Onu già operante nel paese (e chiamata con acronimo francese Minustah), con «i paesi-chiave che inviano bilateralmente truppe» ai fini della sicurezza e del sostegno umanitario.

Negli stessi Stati Uniti si dice che ci si deve coordinare con Minustah e che c'è un «disperato bisogno di mettere i paesi nella condizione di Haiti sotto istituzioni internazionali» (così, raccogliendo gli umori di Washington, ha scritto Max Boot per il Council on Foreign Relations il 18 gennaio e l'Economist ha ripreso l'idea).
A leggere questa profluvie di comunicati e d'informazioni, si direbbe che ad Haiti ha preso corpo quella governance a rete, sotto l'egida delle Nazioni Unite, che è il sogno di cui si vagheggia. Sarebbe ingiusto dire che non ci si stia provando e che non ce ne sia qualche traccia. Ma la realtà sappiamo tutti qual è, è quella di cui ha scritto molto bene Franco Venturini mercoledì scorso sul Corriere della Sera. Il ruolo guida lo hanno preso gli Stati Uniti, loro hanno stabilito l'ordine nell'aeroporto e nel porto di Port-au-Prince e sono i loro soldati a presidiare con la maggiore autorevolezza le strade e la distribuzione degli aiuti. Se ad Haiti non c'è solo caos, e ancora ce n'è molto, lo si deve più a loro che ad altri.

Ciò ha provocato - scrive Venturini - gelosie e frustrazioni (un aereo francese che deve aspettare un'autorizzazione americana per atterrare ad Haiti è difficile da digerire per l'Eliseo) ma il paradosso è che le maggiori frustrazioni sono proprio negli Stati Uniti come ci dicono i commenti e le reazioni politiche. C'è da una parte l'ala democratica, che vorrebbe il proprio paese sottratto ad ogni accusa d'invasione imperialista. La storia della presenza militare degli Stati Uniti ad Haiti non è certo una storia d'infamie, al contrario fu la loro uscita, in piena depressione nel 1934, che lasciò campo libero alla dittatura infame prima di Papa Doc Duvalier e poi di suo figlio. E quando ci tornarono con Clinton nel 1994, fu solo per aiutare il Presidente eletto Aristide ad assumere le sue funzioni. Ma nel mondo di oggi l'immagine dei marines che sbarcano in un altro paese è quella che è e c'è tra i democratici chi non vorrebbe in alcun modo ribadirla. Per contro ci sono i repubblicani che criticano questo ulteriore coinvolgimento, quando già ci sono l'Iraq e l'Afghanistan. Perché ora ci impegniamo anche ad Haiti?

Perché siamo il paese leader - risponde Obama - e quindi questa è una nostra ineludibile responsabilità. La risposta può piacere o non piacere agli anti-imperialisti, ai multipolaristi e ai custodi del bilancio federale, ma è quella esatta. Qualcuno potrà dire che si è costretti ad accettarla per Haiti, in ragione della specifica situazione di quel paese, dove la missione Onu, che pure dispone di un contingente di circa 8.500 unità fra personale militare e personale di polizia, è stata vittima essa stessa del terremoto e può essere nell'immediato meno efficace nell'assolvere a compiti di coordinamento complessivo. Ma non è così.
A parte la rigidità delle regole d'ingaggio, a parte la qualità professionale discontinua del personale militare proveniente dai paesi più diversi, è lo stesso assetto organizzativo a non essere adeguato. Possono ben funzionare le singole agenzie, l'Unicef lo sta facendo egregiamente, ma dedicandosi ciascuna al proprio specifico lavoro. Il coordinamento complessivo è ben altro.

  CONTINUA ...»

24 gennaio 2010
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