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È inutile dire che per gli Stati Uniti tutto questo non vale e che non appena essi lo assumono, il loro ruolo guida (sia pure con mugugni) è accettato dagli altri. Ne vengono anche indubbie disfunzioni, ma è un fatto che senza di loro l'aeroporto di Port-au-Prince non avrebbe mai potuto gestire l'atterraggio giornaliero di un numero di aerei quattro volte superiore alla sua normalità precedente. Si torna dunque alla verità di cui su queste colonne ho già scritto il 29 novembre, quando ho indicato ai multilateralisti estremi la realistica opinione di Leslie Gelb, secondo il quale il mondo multipolare non sopporta più l'egemonia degli Stati Uniti, ma ha ancora bisogno della loro leadership.
Una cosa è fare a meno di qualcuno che decide per tutti. Una cosa ben diversa, e al momento non auspicabile, è fare anche a meno di qualcuno che mette la gente attorno al tavolo, guida la discussione e, in situazioni come quella di Haiti, prende le redini del lavoro comune. Se quel qualcuno non ci fosse, nessuna istituzione avrebbe oggi l'autorità di fare le stesse essenzialissime cose.
In un libro ammirevolmente profetico dei guai che le tigri finanziarie avrebbero procurato al mondo (Tigri globali, domatori nazionali, il Mulino) Fabrizio Saccomanni scriveva nel 2002 della necessità di coordinare fra loro le diverse economie, ma dubitava che le istituzioni di governance globale di cui al momento disponiamo fossero in grado soddisfarla, ove gli Stati Uniti perdessero la loro leadership in campo economico-finanziario.
Il guaio è che gli stati che ne vorrebbero fare a meno non sono neppure vogliosi di rafforzare più di tanto la governance globale. Allora però possono solo sperare, loro malgrado, che Washington sia ancora capace di leadership. È questa la lezione di Haiti.