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Barack, lezioni da una vittoria

di Roberto Perotti

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24 marzo 2010
Barack, lezioni da una vittoria

Nell'ultimo mese Obama ha tenuto una trentina di discorsi con circa 100mila parole; non ha mai pronunciato i termini «talebani», «terrorismo», solo quattro volte «Afghanistan», e ben 800 volte «assicurazione» e «salute». È stato criticato da molti per questa concentrazione esclusiva sulla riforma sanitaria ma alla fine, almeno per ora, ha vinto.
Un fattore importante è difficile da apprezzare per noi europei, tendenzialmente più cinici: la forte motivazione morale di Obama e della speaker della Camera Nancy Pelosi, la seconda giocatrice chiave della vicenda. Un anno fa l'amministrazione iniziò la riforma con un approccio bipartisan, poi i cammini si divisero. Obama ha resistito ai suggerimenti del suo principale consigliere, Rahm Emanuel, di ridimensionare la riforma, e ha accettato il rischio di esser bollato come un presidente settario pur di perseguire un obiettivo morale.
Da decenni questo è il primo pezzo importante di legislazione democratica a passare senza un solo voto repubblicano: la stessa nascita di Medicare nel 1965 fu votata da quasi metà dei repubblicani. Ma per Obama è una prova di forza, non di debolezza: nonostante il suo calo di popolarità, il 60% lo trova un leader che «ispira» e che «decide» incluso il 25% dei repubblicani.
La seconda lezione è sull'opposizione repubblicana. Perché si espongono al rischio di essere percepiti come il partito del no a tutto? Il motivo non è solo l'aumento delle tasse sui redditi sopra i 200mila dollari, che è modesto e che non può spiegare fenomeni anch'essi difficilmente comprensibili per noi europei, come il cartello esposto fuori da Capitol Hill domenica: «Nancy Pelosi, brucerai all'inferno per questa riforma», o l'affermazione del deputato Blackburn: «Con questa riforma muore un poco la libertà».
Per la destra conservatrice religiosa, ogni concessione a una riforma federale significa un'altra avanzata dello statalismo strisciante, da fermare a ogni costo; ogni programma federale è un rinnegamento della responsabilità individuale, e porta a una graduale degenerazione delle responsabilità di solidarietà a livello della famiglia e della comunità.
La terza lezione è sulla flessibilità in fase di formazione. Al contrario di Clinton, che si alienò molti democratici accentrando tutto alla Casa Bianca e non mediò sui contenuti, Obama ha subito coinvolto il Congresso e ha dimostrato molta flessibilità, avendo sempre di mira il duplice obiettivo finale: dare cure mediche alle persone non abbastanza povere per entrare in Medicaid (il programma per i meno abbienti), ma non abbastanza ricche per comprarsi un'assicurazione; e dare cure mediche alle persone non assicurabili perché rischi sanitari troppo alti.
Obama ha capito presto che l'"opzione pubblica", cioè un sistema sanitario nazionale stile europeo, non sarebbe mai passata. La riforma si basa quindi su due pilastri: 16 milioni di nuovi assistiti sono ammessi in Medicaid alzando il limite di reddito. Per altri 16 milioni (rimangono ancora fuori 23 milioni di americani), l'unica alternativa funzionante è un sistema che obblighi le assicurazioni ad accettare tutti, ma che incentivi anche le persone sane a entrare nel pool degli assicurati e penalizzi chi si rifiuta di farlo. Altrimenti le assicurazioni si ritroverebbero solo con i poveri e gli individui più rischiosi.
Nel fare tutto questo, il piano Obama ha segnato forse la differenza cruciale con quello di Clinton: mentre le lobby dei dottori, delle case farmaceutiche e degli ospedali in gran parte si opposero al piano Clinton a causa dei macchinosi controlli e regolamentazioni che introduceva, esse sono state fortemente a favore del piano Obama, che dopo tutto porta 32 milioni di nuovi pazienti e acquirenti di medicine. Alla fine sono rimaste solo le assicurazioni a remare contro, ma questo probabilmente è stato un vantaggio data la loro enorme impopolarità in questo periodo, abilmente sfruttata dall'amministrazione.
La quarta lezione è sull'attuazione. I repubblicani hanno scommesso che, una volta attuata, la riforma rivelerà i suoi lati più statalisti e costosi. Obama ha scommesso invece che i vantaggi si manifesteranno prima dei costi. Abilmente, infatti, la riforma anticipa il più possibile i benefici (come la popolarissima espansione del finanziamento delle medicine agli anziani) e posticipa i costi (come l'obbligo per tutti di comprare un'assicurazione, o la tassa sulle assicurazioni più costose). A quel punto, è la scommessa di Obama, nessun politico repubblicano potrà più opporsi alla riforma ed essere percepito come colui che toglie le cure mediche ai bambini.
L'ultima lezione è sugli aspetti fiscali. Obama voleva un piano che non costasse più di 950 miliardi in 10 anni, poco più di mezzo punto percentuale del Pil. Pur tra le inevitabili controversie, i democratici non hanno mai dato l'impressione di "non badare a spese"; l'immagine di rigore fiscale e la flessibilità dimostrata nel finanziare la spesa sono stati fattori importanti. Secondo alcune stime del Congresso, il disavanzo federale addirittura scenderà di circa 140 miliardi. Quest'ultimo numero è quasi certamente frutto di alchimie contabili, ma non conta molto. Gli Usa possono ben sopportare un aumento minimo del disavanzo per risolvere il problema della sanità per 32 milioni di persone.

roberto.perotti@unibocconi.it

24 marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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