La fase più acuta della crisi economica è probabilmente alle nostre spalle. Ma la ripresa si annuncia stentata e impervia. Non sono esclusi nuovi scivoloni. Il momento nel quale le economie ritorneranno sui livelli di produzione e di occupazione pre-crisi dipendono da molti fattori. Fra questi sarà decisiva la disponibilità di credito in quantità e a tassi adeguati rispetto alle esigenze delle imprese.
Allo stato delle cose questa disponibilità di credito non è affatto garantita. Secondo l'Fmi, date le ulteriori perdite attese sui "titoli tossici" e soprattutto le prevedibili perdite su crediti conseguenza della crisi, i profitti delle banche non sono né saranno in grado di generare risorse patrimoniali capaci di sostenere una crescita dell'offerta di credito adeguata rispetto alla domanda. Se le banche non ricorreranno al mercato per aumenti di capitale, il Fondo stima per i prossimi due anni una forte carenza dell'offerta di credito rispetto alla domanda; nella sola area euro il "credito mancante" sarebbe pari a 500 miliardi.
È noto come le nostre banche abbiano sofferto meno di altre nella fase acuta della crisi. Per molti motivi, non ultimi i soddisfacenti profitti che estraevano dall'attività creditizia tradizionale e il fatto che le nostre banche erano rimaste ai margini di quei processi innovativi all'interno dei quali sono poi emerse le perdite bancarie maggiori. Ma oggi? Purtroppo la situazione non è egualmente buona.
Il nuovo problema che le banche sono chiamate a fronteggiare consiste essenzialmente di perdite su crediti. Le nostre banche non potranno esserne indenni, come ha ammesso il presidente dell'Abi Corrado Faissola (Il Sole 24 Ore del 21 novembre). Anzi partiranno da una situazione nella quale i loro "crediti dubbi" sono maggiori rispetto alla media delle grandi banche europee sia in rapporto ai crediti che al patrimonio.
Proprio dal lato del patrimonio si registra qui da noi la situazione più delicata. Il coefficiente Tier1, quello che misura il patrimonio di primaria qualità in rapporto all'attivo ponderato per il rischio, vede per le grandi banche estere livelli pari a quasi il 15% negli Stati Uniti e di oltre il 10% in Europa, ma di appena il 7,5% nella media delle grandi banche italiane.
In questa situazione - patrimonializzazione relativamente bassa, perdite su crediti attese almeno eguali rispetto alle grandi banche internazionali - le nostre banche presto o tardi saranno costrette a ridurre la dimensione dei propri crediti. A meno che aumentino il patrimonio ricorrendo al mercato. Ma è proprio qui che si manifesta il problema legato agli assetti di controllo prevalenti nelle nostre grandi banche. Assetti basati su fondazioni bancarie, spesso coalizzate fra loro, niente affatto desiderose di accrescere il proprio impegno finanziario nelle banche controllate ma ben attente a impedire aumenti di capitale che mettano in discussione la propria posizione di dominio. Come evidente nella cronaca di questi giorni, anche aumenti di capitale di piccola dimensione sono realizzabili solo a prezzo di grande fatica e di un delicato bilanciamento degli interessi nei complessi equilibri dei soci di maggioranza.
È paradossale che le nostre banche abbiano un grado di patrimonializzazione relativamente basso, pur essendo sottoposte alla supervisione di una banca centrale il cui governatore, nella sua qualità di capo del Financial Stability Board, in ogni occasione sottolinea la necessità di rafforzare il patrimonio delle banche. Messaggio che viene ribadito con forza anche dal presidente della Bce. È probabile che qui da noi le resistenze siano maggiori che altrove, ma sono resistenze che vanno battute. Ne va della disponibilità di credito per le nostre imprese e quindi della capacità di ripresa della nostra economia.
Senza dimenticare che non possono essere escluse nuove fasi di turbolenza finanziaria; fasi nelle quali, come si è visto, le prime a vacillare sono le banche con un grado di patrimonializzazione minore. Anche per evitare questi rischi, è necessario spingere le nostre banche ad aumentare il patrimonio; se necessario mettendo in discussione gli attuali assetti di controllo.
Vent'anni or sono il nostro paese avviò un lungo percorso di riforma del sistema bancario; uno degli obiettivi che si perseguiva - allora il problema era il rispetto dei coefficienti patrimoniali di Basilea 1 - era rendere possibile alle nostre banche l'accesso al mercato per rafforzare il proprio capitale; accesso che era loro precluso o dalla natura giuridica pubblica o dal controllo statale. Quasi un quarto di secolo dopo, rischiamo di trovarci di nuovo con banche che, questa volta a causa della struttura ingessata dei propri assetti di controllo, non sono in grado di accedere al mercato.
Oggi come allora si rischia che le banche, non potendo accrescere il proprio capitale, siano costrette a comprimere il credito, facendo venir meno il necessario ossigeno alle imprese. Oggi come allora, questo rischio si evita rendendo più aperti, moderni, contendibili gli assetti di controllo delle banche, com'era previsto dalla direttiva sulle fondazioni bancarie emanata dal ministro del Tesoro nel 1995, che a questo riguardo è stata in parte disattesa.
Lamberto Dini è presidente della commissione esteri del Senato