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I musei ai privati e l'arte di muovere il Pil

di Francesco Gaeta

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24 novembre 2009

L'idea, va detto subito, era ambiziosa: acquistare la chiesa di San Pietro ai Pellegrini di Milano, navate del Trecento e affreschi di scuola Giotto in zona Porta Romana, e farne uno studio da archistar. Il notaio milanese in questione, con residenza in periferia e ambizioni da centro, non poteva però prevedere che sarebbero serviti nove anni. Di permessi, autorizzazioni, sopralluoghi, carte bollate, rimpalli tra Comune e Sovrintendenza. Attese più onerose del milione di euro (e oltre) servito per ridare il rosso giusto agli angeli sbrecciati dalla Seconda guerra mondiale. Più estenuanti di ogni desiderio di mescolare sacro e profano, bello e utile. «Tornassi indietro? Mai e poi mai», conclude oggi.

La passione per l'arte può insomma scottare, e non nel senso estatico della sindrome di Stendhal. Ma di certo muove il Pil, come emerso anche in un seminario dell'associazione «Amici di Aspen», presieduta da Beatrice Trussardi. Il connubio privati e cultura produce infatti sviluppo. In Europa è accaduto a Lille, capoluogo della regione Nord-Pas-de-Calais e capitale europea della cultura nel 2004, rinata da una cronica depressione a colpi di fondazioni culturali e centri artistici. O tra i boschi della Ruhr, la regione del Nord Reno Westfalia che ha rimesso sangue in un sistema industriale in anemia con musei e sale da concerto. Quanto all'Italia, certo servirebbe portare a sistema la pioggia di ricchezze d'arte disperse sul territorio. Ma anche - paradosso - sfruttare la crisi.

Secondo Lorenzo Bini Smaghi, membro dell'esecutivo della Bce e presidente della Fondazione Palazzo Strozzi «tempi di spesa pubblica sotto sorveglianza offrono ai privati l'occasione per sussidiare efficacemente il pubblico nella gestione dei beni culturali. A tre condizioni. Che si garantisca una governance trasparente, fin dalla selezione: il direttore della Fondazione Strozzi, per fare un esempio di casa mia, è stato scelto con un annuncio sull'Economist. Occorre poi che questa governance sia durevole, cioè al riparo dalla cagionevole salute degli enti locali e dai loro cicli di governo. Infine è indispensabile ridurre la fiscalità in materia culturale».

Oggi una Fondazione può dedurre fino a 70mila euro all'anno. Occorre alzare questo limite. «Non esiste ancora uno studio - conclude Bini Smaghi - e andrà fatto. Ma sono abbastanza fiducioso sui risultati: una fiscalità di vantaggio così concepita potrebbe avere effetti di neutralità sui flussi pubblici, assicurando maggiore efficienza a costo zero per lo stato».

L'arte è una «finestra sul mistero», ha detto Benedetto XVI agli artisti accorsi in Vaticano. Mistero a volte più doloroso che gaudioso. Perché mentre il pubblico stringe per necessità la borsa, i privati faticano a farsi largo e il paese che trae il 12% del Pil dal tesoro d'arte più ricco al mondo fatica a darsi una governance sul tema.

«L'approccio al nostro patrimonio culturale è più basato sulla tutela che sulla fruizione», continua Lorenzo Bini Smaghi. «Ci si occupa di mettere in sicurezza, di garantire nei secoli il patrimonio, molto meno di renderlo davvero fruibile a tutti». In una parola: di immunizzarlo dai virus del tempo, più che immetterlo nel circuito vivo del Paese.

I risultati dello stallo - ed è questo il punto - non hanno solo a che fare con i Beni artistici. Tra creatività e innovazione d'impresa esiste infatti un nesso stretto, quasi da inferenza statistica. Non solo per l'ovvio connubio tra i due mondi, come nel caso delle installazione di luce firmate da star dell'architettura e promosse della Targetti di Firenze. O per l'osmosi tra accademia e laboratori che hanno portato la Novamont a eccellere nel settore bioplastiche. Due esempi tra i tanti possibili, citati ieri all'Aspen Institute.

Per allargare il campo ai dati di sistema, basta mettere su una colonna le cifre dell'Eurobarometro sulla partecipazione ad eventi culturali, e nell'altra la classifica sull'innovazione dei sistema-paese dell'European Innovation Scoreboard. I paesi sopra la media a sinistra prevalgono anche in quella di destra. Svezia, Olanda, Danimarca, su tutti. Come dire: laddove si consuma più cultura, si fa anche più innovazione. Con buon pace dell'Italia, sotto media in entrambe le classifiche.

«Non è certo un rapporto di causa-effetto», avverte Pierluigi Sacco, docente di Economia e cultura alla università Iuav di Venezia. «La nostra idea è piuttosto che la cultura agisca come piattaforma sociale di pre-innovazione. La creatività tende a smuovere strutture cognitive acquisite. E può favorire il cambiamento anche nel settore industriale, soprattutto nei paesi in cui l'acquisizione di elevate competenze culturali è ritenuta premiante nelle relazioni sociali».

24 novembre 2009
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