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Il filo delle riforme nel labirinto recessione

di Luca Paolazzi

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24 ottobre 2009

La crisi non è finita. Non solo perché alcuni nodi della fragilità del sistema finanziario non sono stati sciolti e rendono perciò più lenta e densa di insidie la ripresa. Ma soprattutto perché siamo immersi pienamente nelle conseguenze economiche e sociali della più violenta recessione degli ultimi ottant'anni. In termini di effetti sui mercati del lavoro, Pil potenziale, ristrutturazione dei settori, in particolare del manifatturiero, il più colpito dalla caduta della domanda.

Come tutte le recessioni, anche questa ha messo e metterà in moto riorganizzazioni e ripensamenti dei modi di stare sul mercato da parte delle imprese, ridisegnerà la geografia dell'economia globale, darà maggior slancio alle innovazioni in ogni ambito. D'altronde, la crisi stessa, come è stato notato da più parti, affonda le radici in mutamenti epocali, che prima avvengono lentamente sotto la superficie dei fenomeni e poi bruscamente si rivelano. Un po' come avviene per gli spostamenti delle placche tettoniche che d'improvviso causano terremoti. I mutamenti riguardano essenzialmente lo spostamento del baricentro della crescita globale verso l'Asia, con l'emersione di nuove potenze economiche come la Cina e l'India. Sono eventi irreversibili e ineludibili. Che vanno affrontati adattandosi al cambiamento.
Ciò coinvolge gli interi sistemi-paese, oltre che i singoli attori economici, imprese e lavoratori. Solo le nazioni che sanno adottare in tempi rapidi le riforme necessarie potranno cogliere i benefici di questo mutamento e quindi averne un vantaggio netto, derivante dal confronto tra le opportunità offerte dai nuovi mercati e i rischi della maggiore pressione concorrenziale.

L'Italia ha enormi potenzialità, e tuttavia non ha finora dato l'impressione di saperle sfruttare come avrebbe potuto. Se guardiamo le statistiche, rimane la settima potenza economica mondiale (Pil a prezzi correnti), il sesto esportatore. Il manifatturiero si presenta come il pilastro del benessere, il settore che consente di pagare la bolletta delle materie prime che importiamo, grazie al surplus 2008 di 64 miliardi nell'export-import di manufatti. Tuttavia, nei dieci anni precedenti la crisi (1998-2008), il paese ha sofferto di mal di lenta crescita. Il Pil è aumentato a un ritmo medio annuo dell'1,2% contro il 2,1% della Ue a 15.

Un divario cumulato di oltre undici punti percentuali che ci è costato, considerando anche il 2009, quasi 960 miliardi di euro di minore ricchezza prodotta, di cui 177 solo quest'anno. Come se in questi undici anni avessimo perso oltre sette mesi di attività economica, produzione, redditi e consumi.
Molti sono i fattori che frenano il sistema produttivo. Alcuni riguardano direttamente il modo di fare impresa, con un grado di internazionalizzazione non ancora sufficiente (soprattutto scarso è il presidio dei mercati più dinamici), una dimensione aziendale inferiore alla media degli altri paesi (anche per il prevalere di produzioni dove il principale fattore competitivo non sono le economie di scale), insufficienti investimenti in innovazione. Ma di gran lunga il maggior responsabile, la più grande zavorra alla crescita è costituita dall'inefficienza della pubblica amministrazione.

Lo Stato, nella sua accezione più ampia, incide in ogni ambito della vita economica, e non solo economica, del Paese. Sia quando incassa le imposte (quante e come e da chi le incassa) sia quando spende (quanto e in cosa e come spende). Ma anche quando non interviene immediatamente sull'economia, lo fa per via mediata, attraverso norme e regolamenti e loro applicazioni. Generando incertezza e sfiducia, se la sua azione è inefficiente. E' stato stimato dal Centro Studi Confindustria (vedere Oltre la crisi, PMI classe dirigente) e dalla Banca d'Italia che le riforme strutturali attuate in quattro sfere in cui opera lo Stato (infrastrutture, burocrazia, capitale umano, liberalizzazioni), direttamente come compratore di beni o come fornitore di servizi o indirettamente come regolatore, potrebbe far lievitare il Pil del 30%. E si tratta di una percentuale affetta, semmai, da sottovalutazione.
D'altronde, le riforme strutturali sono l'unica via per innalzare la crescita del Paese, che dopo la crisi rischia di essere ancora più bassa di quella sperimentata nel decennio precedente. Una via che non può più essere ignorata e va imboccata rapidamente perché senza una crescita più rapida non sarà possibile stabilizzare il debito pubblico ai valori già molto alti a cui si collocherà nel 2014 (oltre il 130% del Pil, secondo l'Fmi).

Oppure si preferisce aumentare ancora le imposte? Un ulteriore aumento della pressione fiscale è improponibile. Quella apparente, calcolata rapportando il totale delle entrate al Pil, è già al 43% del Pil, molto elevata nel confronto europeo; ma quella effettiva, ottenuta escludendo l'economia sommersa, sfiora il 55% e grava sulle spalle dei soliti noti. Un'iniquità figliastra di uno Stato fannullone e sprecone.
All'opposto, la riduzione delle aliquote fiscali, a cominciare dall'Irap, è invece uno strumento importante proprio per rilanciare la crescita. Ma per efficace deve essere credibile e duratura e quindi deve rispettare l'equilibrio dei conti pubblici trovando copertura in un'equivalente diminuzione della spesa. Non è un'impresa impossibile.

24 ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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