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L'Onu non diventi megafono dell'odio

di Simon Schama

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24 settembre 2009
Il presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad (Afp)

Uno degli aspetti più repellenti delle reiterate dichiarazioni di Mahmud Ahmadinejad, alla vigilia della festività ebraica del Rosh Hashanah, sul fatto che l'Olocausto sarebbe una menzogna, è la risposta blanda dei media e dei governi occidentali. Da Berlino sono arrivate doverose dichiarazioni di condanna del discorso del presidente iraniano, mentre a Washington hanno lasciato la rampogna ufficiale al portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs. Ma era come se l'atrocità morale del discorso di Ahmadinejad fosse appena meritevole di commenti: in primo luogo non c'è niente di nuovo, e in secondo luogo entra in conflitto con il dilemma pratico di come "dialogare" con il presidente iraniano durante la visita di questa settimana alle Nazioni Unite. Un modo sarebbe inviare ad Ahmadinejad qualche copia della risoluzione dell'Assemblea generale del 2005, che ripudia i negazionisti e istituisce una giornata di ricordo dell'Olocausto, il 26 gennaio, incoraggiando tutti gli stati membri a insegnare ai loro popoli quel genocidio, affinché azioni barbare di quel tipo non tornino a ripetersi in futuro.

Ma i fatti concreti difficilmente potranno produrre qualche impressione su un uomo e su un regime persi in una alterazione paranoica. La questione più pressante è come contenere le conseguenze delle fantasticherie antisemite e recuperare le credenziali morali di un'Assemblea generale che ha dato ascolto a qualcuno che contraddice in modo tanto flagrante la sua stessa risoluzione. C'è anche una pressante ragione pratica per manifestare sdegno. L'ossessione per la cancellazione di Israele non è un carnevalesco spettacolo di contorno rispetto all'ambizione del suo regime di dotarsi di armi nucleari, tutt'altro: né è la ragione fondamentale. Un Iran nucleare, ragiona probabilmente la teocrazia, sarebbe in grado di mettere fine all'esistenza di Israele semplicemente minacciando di colpirlo, a meno che la sua popolazione ebraica non parta immediatamente verso luoghi che i mullah considerano adatti per la loro deportazione. Ecco le ragioni dello spensierato ottimismo manifestato dalla loro creatura sul fatto che i giorni di Israele sono contati, e la sua allegria per il fatto che l'Iran verrà onorato nell'islam come l'eroica nazione che ha reso possibile quest'esito felice.

La vigliaccheria dell'imbarazzo e i temporaggiamenti sulle misure da prendere nei confronti del prestanome carnascialesco di una tirannia che resta in sella con la brutalità e la tortura sono un segnale deprimente di collasso morale. Tra le vittime dello scempio della verità che compie Ahmadinejad non c'è solo la memoria oltraggiata dei milioni di morti, ma la storia stessa, la cui integrità è parte essenziale della tradizione politica occidentale.
L'affronto più assurdo alla realtà nelle sue osservazioni è forse la lamentazione sul fatto che la ricerca storica sull'Olocausto sia stata ostacolata da una cospirazione delle sue pretese vittime. Quella che ha in mente lui è il tipo di storia che lui vuole leggere.

La grande gloria del progetto inaugurato da Tucidide il fatto di sforzarsi di separare i fatti dalle leggende e di rendere la storia strumento di sincera autocritica, invece che di oziosa autocelebrazione. Così concepita, sarebbe diventata il tormento del dispotismo. Era qualcosa di nuovo per il mondo l'idea che l'autorevolezza della storia basata su un'inflessibile analisi dei documenti avrebbe sempre prevalso sulle fantasie derivate da proclami di rivelazione. Ma forse abbiamo già abbandonato la concezione di una storia che sferza senza pietà l'idiota turpitudine. Forse è più facile digerire la storia come melensaggine in costume, rimettendo in scena all'infinito la Guerra Giusta e crogiolandosi in innocue storie d'amore in costume gentilmente offerteci da Jane Austen, mentre la storia ostica diventa via via più esile, fino a che non pone fine alle sue sofferenze e non lascia spazio all'era dell'amnesia nazionale. «I fatti sono cose ostinate», diceva uno dei Padri Fondatori, John Adams, che aveva ben chiaro in mente che la democrazia vive o muore con il coraggio della sua storia. Quell'osservazione la pronunciò in difesa dei soldati britannici accusati di aver sparato deliberatamente sui civili nelle strade di Boston. La prudenza avrebbe consigliato al giovane avvocato di guardare dall'altra parte in una città infiammata dall'odio verso i soldati di sua maestà. Ma non lo fece. La storia dice che sostenne con coraggio, eloquenza e indignazione la causa imperitura della verità. Possa dirsi lo stesso di coloro che in questo momento avrebbero il dovere di contrastare l'uso perverso della storia con qualcosa di meno codardo di un'educata obiezione.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

24 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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