Salvare Keynes dai keynesiani. Potrebbe essere questo il motivo di fondo che ha spinto uno dei (pochi) grandi economisti italiani a entrare nel merito di come la scienza economica abbia affrontato i grandi cambiamenti provocati dalla crisi globale degli ultimi anni. È così che Luigi Pasinetti, docente emerito alla Cattolica di Milano e presidente onorario dell'International Economic Association, rivolge la sua attenzione sul fatto che gli stessi discepoli di Keynes abbiano quasi lasciato a metà l'opera del grande maestro e abbiano quasi avuto timore di portare a fondo le conclusioni dell'analisi dell'economista di Cambridge.
Il punto centrale è questo. La crisi ha ampiamente dimostrato che la teoria classica non basta più, che la "mano invisibile" può creare più problemi che soluzioni, che i mercati non ubbidiscono alle teorie delle aspettative razionali o dei margini di profitto. Ma a questo punto l'adozione di politiche sommariamente definite keynesiane, con un massiccio intervento pubblico nell'economia, viene comunque considerata non tanto come una logica, ma soprattutto come una necessità, come un atto dovuto in attesa di un ristabilirsi degli equilibri precedenti. «Gli economisti – osservava Keynes già nel 1923 – si attribuiscono un compito troppo facile ed essenzialmente inutile se nei periodi burrascosi possono solo dirci che quando la bufera sarà passata, l'oceano ritornerà a essere calmo».
Ci sono in fondo due prospettive che si confrontano e che apparentemente dividono gli economisti: da una parte il modello di equilibrio economico generale di Leon Walras che costituisce quasi un rifugio sicuro all'interno di processi logico matematici che non solo interpretano, ma anche dovrebbero guidare la realtà economica e sociale; dall'altra il monito di Keynes ripreso e approfondito con coerenza da Joan Robinson, così come da Piero Sraffa, Nicholas Kaldor e Richard Kahn, che «spostano il focus dell'economia teorica dall'allocazione ottima di risorse date, a cui la teoria era rimasta legata per quasi un secolo, all'analisi di questi fattori fondamentali che sono responsabili della dinamica delle società occidentali». L'ago della bilancia si sposta da una scienza economica che vuole sistematizzare a una visione in cui entrano in gioco fattori diversi, e decisivi, come la crescita della popolazione, il grado d'innovazione, la distribuzione del reddito e, ovviamente, la politica della spesa pubblica.
Per questo la rivoluzione di Keynes è, secondo Pasinetti, ancora da portare a compimento: perché c'è l'eterna tentazione degli economisti di cercare un comodo rifugio nei modelli astratti e nelle formulazione teoriche. Ma, scrive Pasinetti, «la storia è della parte della teoria keynesiana, non contro di essa» ed è significativo che l'attenzione maggiore sull'evoluzione futura dell'economia riguardi, proprio in una prospettiva keynesiana, più la diffusione della conoscenza che non la politica monetaria o di bilancio.