Tassi più bassi e un po' d'inflazione in più... È il sogno di molti operatori economici e di tanti politici, un sistema con le briglie della politica monetaria più "sciolte". Fino a qualche giorno fa, sembrava un'eresia. Poi il Fondo monetario internazionale ha rotto il tabù.
Il capo economista dell'Fmi Olivier Blanchard ha lanciato - in Rethinking Macroeconomic Policy - una proposta "forte": portare l'obiettivo d'inflazione, punto di riferimento più o meno esplicito dei banchieri centrali, dal 2 circa al 4 per cento. La proposta ha motivazioni tecniche. La politica monetaria si è spesso trovata senza munizioni: negli ultimi "shock" - l'attacco alle Torri Gemelle, o la recente recessione - i tassi ufficiali erano già molto bassi. Portarli a zero, o quasi, non è stato sufficiente: gli Stati Uniti, per esempio, richiederebbero oggi un "taglio" di altri tre/cinque punti percentuali. Un costo del denaro negativo, però, non è possibile, a meno che le autorità monetarie non promettano di far correre liberamente i prezzi. È stato quindi necessario far ricorso alla politica fiscale, che è lenta e sottoposta a mille compromessi, e ha effetti imprecisi, che dipendono dalla qualità delle spese. Un'inflazione più alta e tassi nominali più elevati - spiega Blanchard - darebbero alla politica monetaria più spazio per agire.
Non c'è quindi, dietro la proposta, l'idea di favorire la crescita con un costo del denaro più basso, come spesso si auspica: il new keynesian Blanchard sa bene - e lo scrive - che nella realtà le banche centrali tengono spesso conto, in genere senza dirlo, del livello d'attività economica, ma pensa che da un punto di vista teorico «l'ipotesi di un tasso naturale (di crescita, ndr) tenga», ed esista una «divina coincidenza» tra l'obiettivo di mantenere stabile l'andamento dei prezzi e massimizzare la crescita non inflazionistica. Blanchard si attiene a quello che lui stesso chiamò «un articolo di fede»: la neutralità della moneta nell'economia reale. Nel lungo periodo, quindi, non c'è la possibilità di scegliere un equilibrio possibile tra inflazione e crescita (dietro la quale si nasconde sempre l'occupazione).
Non tutti sono d'accordo con questa impostazione, anche nel campo più ortodosso: «Sappiamo troppo poco per raggiungere questa conclusione», spiega Paul De Grauwe, esperto di unioni monetarie all'Università di Leuven, che da tempo auspica per Eurolandia un obiettivo di inflazione più alto, anche se preferisce il più controllabile 3 per cento. Anche in questo caso, però, non c'è l'idea di favorire la crescita ma quella, ispirata da James Tobin, dell'inflazione come "lubrificante": quando in alcuni settori in declino, spiega De Grauwe, occorre ridurre i salari reali è più facile farlo con un'inflazione al 3%, basta che crescano dell'1 o del 2 per cento. In ogni caso, aggiunge De Grauwe, è importante liberarsi dell'idea che un'inflazione al di sopra del 2% possa essere dannosa per la crescita, come pensa a volte la Bce: la storia della Germania prima degli anni 90 è lì a dimostrarlo.
Il tema del prezzo da pagare per tenere le aspettative d'inflazione stabilmente al 3 o al 4% è però molto serio, anche se sembra superabile. «Non ci sono elementi per pensare che il costo per l'attività reale del 4% d'inflazione sia più alto di quello di un'inflazione del 2%», conferma Lucrezia Reichlin, docente alla London Business School e un tempo responsabile delle ricerche alla Bce, la quale ricorda che «il problema non è il livello (in un certo range) ma la stabilità dell'inflazione». I veri costi possono così emergere cambiando il target. I mercati potrebbero reagire male e le banche centrali perdere credibilità: «Se la Bce, che ha un obiettivo d'inflazione intorno al 2%, dovesse dichiarare di tollerare il 4% - continua Reichlin - questo avrebbe un effetto destabilizzante sulle aspettative e quindi sull'inflazione stessa: non ci fermeremmo al 4 per cento».
È un'opinione non del tutto condivisa da De Grauwe, ma che è molto diffusa; ed è un po' triste pensare che l'autorità monetaria possa restare "imprigionata" dalle proprie decisioni. L'esperienza della Svezia e della Norvegia, che pubblicano previsioni sull'andamento dei "loro" tassi, pronti a cambiarle e a spiegare ai mercati perché, mostra però che l'impasse è forse superabile.
Il nodo è allora un altro, quello dell'inflazione finanziaria: una politica monetaria troppo espansiva - è la lezione della Banca dei regolamenti internazionali, l'unica ad aver previsto la crisi - può alimentare l'instabilità sui mercati ed è stata la fonte delle recenti difficoltà. «La politica monetaria dovrebbe tener conto dei suoi effetti sulla stabilità finanziaria», ha recentemente detto il direttore generale Bri Jaime Caruana, illustrando un caso molto attuale: quello della Spagna e della sua bolla immobiliare e creditizia. Il vero limite della proposta di Blanchard è tutto qui.