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POLITICA ECONOMICA / Lo stato (eccezionale) di Keynes

di Lorenzo Bini Smaghi

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25 febbraio 2010

«John Maynard Keynes è tornato di moda», scrive Robert Skidelsky nella prefazione del suo ultimo libro, Keynes, the Return of the Master, pubblicato meno di un anno fa. Non tanto, dice Skidelsky, per il fatto che il mondo sta fronteggiando la peggiore crisi dai tempi della Grande depressione e i governi di tutto il mondo hanno messo in campo pacchetti di misure di stimolo per sostenere l'economia, come raccomandava l'autore della Teoria generale, quanto perché Keynes «offre il tipo di teoria giusto», una teoria che è «una guida indispensabile per il futuro».
Una domanda che viene in mente a leggere queste parole è perché Keynes fosse andato fuori moda, perché la Teoria generale fosse stata dimenticata e le sue prescrizioni abbandonate. Se la teoria di Keynes era effettivamente generale, avrebbe dovuto essere applicabile in tutte le circostanze, e non solo quando il mondo si trova sull'orlo del collasso.

Sono due le risposte possibili. La prima è che la teoria keynesiana non è generale, e dunque non è applicabile a tutti gli stati economici del mondo. La seconda è che il famoso ammonimento di Keynes nell'ultima pagina della sua Teoria generale («gli uomini pratici, che si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale, di solito sono schiavi di qualche economista defunto») è stata capovolta. In altre parole, gli economisti defunti - e le loro teorie - di solito sono schiavi di uomini pratici che non le comprendono fino in fondo.

Io propendo per la seconda interpretazione. A mio parere, il contributo più importante che abbia mai offerto Keynes è quello di mettere in guardia gli uomini pratici, decisori inclusi, dal rischio di rimanere intrappolati in teorie preconcette quando si tratta di affrontare argomenti nuovi. Nelle Conseguenze economiche della pace (1919), Keynes sconsigliava di adottare la pratica tradizionale dei trattati di pace, vale a dire imporre ai paesi sconfitti riparazioni colossali senza tener conto della situazione economica generale e del fardello che una politica del genere avrebbe imposto anche ai paesi vittoriosi. Nella Riforma monetaria (1923), l'economista inglese metteva in guardia da un ritorno precipitoso al gold standard, il sistema prevalente prima della guerra, per ripristinare la disciplina monetaria e lottare contro l'inflazione. Nella Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse, della moneta (1936), invitava a diffidare delle predizioni della teoria classica, in particolare quando i presupposti di base di tale teoria non sono soddisfatti, come accadeva durante la Grande depressione.

Per tutta la vita Keynes ha messo in discussione le costruzioni mentali basate su presupposti molto restrittivi. Nella Teoria generale, dimostra i limiti di questo tipo di approccio ponendo al centro della sua analisi il ruolo che gioca l'incertezza nel determinare i risultati economici. Come sottolinea lui stesso: «Lo stato di fiducia, come lo definiscono loro, è una questione a cui gli uomini pratici dedicano sempre la massima attenzione. Ma gli economisti non l'hanno analizzato accuratamente». Dal suo punto di vista, il ruolo pervasivo che gioca l'incertezza nell'economia è l'unica spiegazione possibile di numerose altre differenze fra il mondo reale e il sistema idealizzato descritto dalla teoria dell'equilibrio generale dell'economia classica. In particolare, spiega come possa persistere una situazione di aspettative depresse, e come questa situazione possa condurre a una recessione prolungata, o addirittura a una depressione. Secondo Keynes, lo "stato di fiducia" è in evoluzione costante. Quando è alto, gli affari prosperano; quando è basso, invece, l'economia si contrae e può addirittura finire per ritrovarsi in una situazione di sottoutilizzazione delle risorse.

L'analisi di Keynes sulla necessità e sul ruolo dell'intervento pubblico è basata sullo stato d'incertezza prevalente nell'economia. Il contribuito principale che possono offrire le politiche economiche è quello di ridurre l'incertezza. Le politiche non sono "buone" o "cattive" di per sé: sono efficaci innanzitutto se e nella misura in cui riducono o incrementano l'incertezza macroeconomica, e in secondo luogo se sono in grado di coordinare le aspettative degli operatori in direzione d'un miglior equilibrio. Keynes non era favorevole a un intervento sistematico del governo nell'economia, in tutte le circostanze e in tutti gli stati del mondo. Dal suo punto di vista, il governo doveva astenersi dall'interferire con il normale funzionamento dell'economia, e doveva intervenire solo in circostanze eccezionali, in particolare se esisteva uno stato di incertezza acuta. Purtroppo, dopo la Seconda guerra mondiale molti dei suoi seguaci trascurarono questo aspetto e perorarono l'intervento pubblico in tutte le circostanze e in tutti gli stati d'incertezza, finendo per produrre errori come la Grande inflazione degli anni 70.
Per assicurarci che Keynes sia tornato veramente, e che non venga rispedito sugli scaffali una volta finita la crisi, dobbiamo comprendere appieno la portata della sua analisi, in particolare il ruolo che gioca l'incertezza nel determinare gli esiti economici.

  CONTINUA ...»

25 febbraio 2010
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