Ancora poche settimane fa Silvio Berlusconi sosteneva di voler limitare la sua partecipazione alla campagna elettorale. Motivo? «Problemi di sicurezza», cautele collegate al ricordo dell'aggressione di Milano. In realtà il presidente del Consiglio non giudicava opportuno o necessario tuffarsi nella contesa e caricarsi sulle spalle, una volta di più, il peso del centrodestra. Ma in un paio di settimane molta acqua è passata sotto i ponti e allora il vecchio leader, circa sedici anni dopo la sua discesa in campo, si è rimesso alla testa dei suoi. Guida «i paladini del bene» contro l'esercito del male. Immagine da film di fantascienza per ragazzi, dietro la quale non s'intravedono nuovi contenuti. La foga è la stessa di sempre, a conferma che Berlusconi si trova bene soprattutto nel clima guerresco, uno contro tutti. Ma il discorso ascoltato ieri, che ha dato il via alla rincorsa verso le regionali di fine marzo, avrebbe potuto essere pronunciato cinque anni fa. O dieci o quindici. Avrebbe potuto essere il primo intervento di un leader che si affaccia adesso alla ribalta, anzichè l'ennesima battaglia di un premier che è sulla breccia dal 1994.
Non c'è, potremmo dire, spessore storico nelle sue parole. Siamo nel 2010, ma è come se fossimo nel '94. O nel 2001. La fotografia del paese è sempre identica, come pure il repertorio polemico: di qui il bene, di là il male; di qui l'ottimismo, di là il catastrofismo; di qui la libertà, di là lo «stato di polizia»; di qui l'identità italiana, di là le porte aperte agli immigrati (ma Fini la pensa in modo diverso). Si capisce che Berlusconi non aveva alternative. Ha compreso prima di altri che il rischio non è mai stato così alto. Come titolava ieri «Libero», il presidente del Consiglio ritiene che le elezioni «siano in mano ai pubblici ministeri», che le inchieste equivalgono a un'ipoteca sul risultato delle regionali e che una parte dell'elettorato del Pdl, disorientato, sarà tentato di restare a casa. Conseguenza ovvia: bisogna scuotere l'albero e motivare le persone.
Tradotto in parole povere, Berlusconi si rende conto che stavolta la strada verso il successo è in salita. Non perché l'opposizione abbia recuperato fascino (anche se finirà per imporsi in 7 regioni contro 6, o anche in 8 contro 5). Ma perché cresce lo sconcerto dell'opinione pubblica di fronte a certe collusioni pressoché palesi. Non ci si riferisce tanto alle vicende legate alla Protezione Civile, bensì al rapporto di complicità fra il senatore del Pdl Di Girolamo e la malavita calabrese. La giunta per le autorizzazioni sta affrettando l'istruttoria per consentire al Senato di decidere al più presto sull'arresto del parlamentare.
Una brutta storia, forse solo agli inizi, che si consuma nelle stesse ore in cui la Conferenza episcopale disegna un quadro drammatico delle complicità tra mafia e politica nel Mezzogiorno. Dunque non si tratta più di «zona grigia» e di malcostume, bensì di un gorgo di illegalità senza fondo. Rispetto al quale il presidente del Consiglio non ha detto niente. Anzi, si è scagliato una volta di più contro l'eccesso di intercettazioni, «un sistema barbaro».
Forse è vero, ma non era il giorno più adatto per dirlo, visto che Di Girolamo è stato incastrato grazie alle intercettazioni. Il punto è che Berlusconi sa di guidare un partito fragile, aperto alle infiltrazioni. Un partito che non si è consolidato negli anni. E che adesso costituisce quasi un «handicap» per il leader carismatico costretto all'ultima battaglia.