Linee guida sui divorzi tra cittadini europei di paesi diversi. Sono quelle varate ieri dalla Ue. Un effetto secondario dovrebbe essere uno snellimento di procedure e tempi. Che in Italia (nelle foto il referendum del 1974), stando all'Istat, sono lunghi: in media 153 e 165 giorni per separazioni e divorzi consensuali. Che diventano 954 e 682 in caso di vertenza. Ma accorciare i tempi serve ai coniugi in crisi (e ai figli)?
Perché sì
di Michele Ainis
Per il divorzio breve depongono almeno tre ragioni. Primo: i diritti non basta scriverli sulla carta delle Gazzette Ufficiali, bisogna renderli effettivi. E tre anni di separazione prima di rompere le nozze sono soltanto un miraggio normativo, dato che poi un procedimento di divorzio a Bari si prolunga per 972 giorni, a Messina per 900 giorni, e via elencando. Colpa dei tempi biblici della giustizia italiana, che la Banca mondiale colloca al 156° posto su 181 paesi. Ma colpa altresì di un doppio giudizio (separazione + divorzio), che si risolve in una doppia vessazione. Secondo: in questo slalom processuale chi ci rimette soprattutto sono i più indifesi. In primo luogo i figli, perché anno dopo anno i rapporti fra i loro genitori separati s'avvelenano, e avvelenano pure chi gli vive accanto. E in secondo luogo gli stessi coniugi, se non hanno il portafoglio gonfio. In quest'ultimo caso possono chiedere asilo in Vaticano (alla Sacra Rota un procedimento dura la metà, ma costa il doppio) oppure nell'accogliente Europa (dove in virtù d'un regolamento Ue te la cavi in pochi mesi, però devi possedere una casa oltre confine).
Terzo: non si può nuotare contro la corrente della storia. Piaccia o non piaccia, viviamo un tempo accelerato, dove ogni esperienza dura meno d'un fiammifero. Ecco perché vent'anni fa abbiamo accorciato la separazione, portandola da cinque anni a tre. Ma quel progresso si è via via trasformato in un regresso, per esempio nei confronti della vicina Francia. Ne sa qualcosa Sarkozy, che ha divorziato da Cecilia in meno di tre mesi, sposando quattro mesi dopo Carla Bruni. Difatti i francesi hanno introdotto nel 2005 il divorzio lampo, e tale riforma gli ha permesso d'abbassare anche i tempi processuali. Per tutti, non solo per il presidente.
michele.ainis@uniroma3.it
Perché no
di Stefano Zamagni
La risposta è no: non sono d'accordo su uno snellimento dei tempi di separazione (e divorzio). Secondo la teoria dei giochi, se due contraenti sanno che i tempi di rottura di un patto - in questo caso un matrimonio - si fanno più brevi saranno incentivati a trasformare una difficoltà in impedimento definitivo. La lungaggine della separazione ha cioè una funzione deterrente. La brevità costituisce, al contrario, un incentivo alla rottura del patto. È un dato di "economia delle relazioni".
Ovviamente, tutto questo sottintende un approccio preciso: io considero un valore primario non il benessere dei due contraenti in sé ma quello della famiglia nel suo complesso. Tre le ragioni di questo punto di vista.
La prima è che la famiglia è uno dei più potenti fattori di coesione sociale che si conoscano. È dimostrato che le società in cui la famiglia regge sono meno vulnerabili agli attacchi esogeni o alle avversità. La famiglia è generatrice di capitale sociale, fattore decisivo di sviluppo. La seconda ragione è che la famiglia è il luogo maggiormente titolato ad attuare pratiche di reciprocità. Una delle ragioni delle sofferenze del mondo di oggi è proprio nella carenza di questo elemento relazionale. La terza ragione è che la famiglia è fondamentale per l'educazione dei figli. Un bambino scopre la propia identità in un rapporto di relazione continua con i genitori.
In sintesi: la famiglia è un valore essenziale. Accorciare i tempi della separazione tra coniugi è un incentivo a destrutturarla. Non discuto ovviamente della liceità della separazione. Ma non sono favorevole a quanto può nuocere alla famiglia.