I l consiglio di «abbassare i toni» è di tale buon senso che non può essere sottovalutato. Tuttavia le parole del presidente del Senato e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura rischiano di restare sospese in aria, mentre a livello del suolo ci sono le macerie. La verità è che nessuno sa come finirà il braccio di ferro sul «processo breve». Ora comincia l'iter parlamentare della legge, ma i dubbi sulla costituzionalità di questa o quella norma sono forti anche a destra. E non è credibile che il testo possa essere licenziato con successo dalle due Camere se tali dubbi non saranno risolti in modo convincente.
In secondo luogo c'è grave incertezza circa le ripercussioni delle nuove norme sui processi in corso. Qui la materia è opinabile e la guerra di cifre tra il ministro Alfano, l'Associazione magistrati e ora anche il Csm lo conferma. In ogni caso è chiaro che ci siamo inoltrati lungo un sentiero inesplorato e come tale fonte di conflitti infiniti.
La situazione non è priva di un risvolto paradossale. Da un lato, il presidente della Camera, ancora ieri a Milano, ha messo in luce le «convergenze» sulle riforme che nonostante tutto il Parlamento riesce a esprimere. Il riferimento è al superamento del bicameralismo, alla riduzione dei parlamentari e ai poteri del premier: tutti spunti riformatori – a corollario del federalismo – che riecheggiano la cosiddetta «bozza Violante». Il Pd di Bersani è d'accordo, come testimonia la mozione trasversale presentata da Anna Finocchiaro e Luigi Zanda.
Il tentativo di valorizzare questa intesa è in corso a opera del Quirinale, dello stesso Fini, della Lega e di un centrosinistra che sta cercando con fatica di ritrovare un ruolo. Con fatica, appunto: perché un'altra parte della maggioranza, quella più vicina al premier, vede con sospetto questo avvicinamento di posizioni e preferisce dipingere Bersani come un «perdente» che si è già consegnato mani e piedi al giustizialismo di Di Pietro.
Il secondo lato del problema riguarda proprio il rebus del «processo breve». Che non è la riforma della giustizia, come il presidente della Camera continua a ripetere. Ma di certo è un passaggio cruciale per la legislatura e per la leadership berlusconiana. Finora il premier non ha dato mostra di voler correggere la rotta e anzi chiede alla sua maggioranza di procedere in fretta con il disegno di legge.
Ma a questo punto è evidente il pericolo di collisione. È difficile, se non impossibile, immaginare, da un lato, lo scontro in Parlamento sul «processo breve» e dall'altro l'accordo sulla bozza Violante e le riforme condivise. Per quanto gli italiani siano abituati agli scenari politici schizofrenici, questo forse lo è un po' troppo.
L'unico che ha provato a quadrare il cerchio con una proposta è il presidente dell'Udc, Casini. La sua norma transitoria, volta a frenare i processi al capo del governo con l'argomento del «legittimo impedimento», è senza dubbio una via d'uscita. Ma presuppone un centrodestra capace di ammettere quello che finora non ha mai ammesso: che il problema è tutto e solo nei processi al presidente del Consiglio, non nelle reprimende europee all'Italia per la lentezza del suo sistema giudiziario.
Anche per questo la ciambella di salvataggio offerta da Casini finora non è stata raccolta. Ma gli eventi incalzano e non si può escludere un colpo di scena nei prossimi giorni.