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Quer pasticciaccio delle primarie

di Miguel Gotor

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25 ottobre 2009

Nelle ore in cui si sta scegliendo il segretario nazionale del Pd, nell'attesa di essere invasi dal prevedibile trionfalismo sui grandi numeri dei partecipanti al voto, non è inutile riflettere sulla cultura politica oggi predominante in quel partito che il meccanismo delle primarie rivela agli occhi dell'opinione pubblica.

La domanda da cui partire è la più brutale: a che cosa servono queste primarie? Si risponderà: per eleggere il segretario del Pd non solo grazie al voto degli iscritti, ma anche a quello dei suoi potenziali elettori. D'accordo, ma se alziamo il velo di ozioso perbenismo che avvolge questo quesito, si scopre che fino a oggi le primarie sono state uno strumento politico inefficace. La prima volta, nell'ottobre 2005, furono indette per puntellare il secondo governo di Prodi. Il professore è stato per dieci anni il leader del centro-sinistra a condizione di non formare un proprio partito ma, per evitare di essere disarcionato dalla guida dell'esecutivo come era già avvenuto nell'ottobre 1998, pretese di essere rafforzato dall'investitura popolare. Bene, sappiamo tutti come è andata, primarie o non primarie. La seconda volta, nell'ottobre 2007, lo strumento venne escogitato per rafforzare Veltroni alla segreteria del Pd. L'ex sindaco di Roma accettò di guidarlo solo se la sua elezione fosse stata accompagnata da un plebiscito popolare, pensando così di potersi mettere al riparo dalle tempestose conseguenze del primo rovescio elettorale. Bene, sappiamo tutti come è andata, primarie o non primarie.

E oggi? Oggi le primarie servono a dare la possibilità a chi è stato sconfitto nei congressi di partito di ribaltare quel risultato. Gli esiti potrebbero essere paradossali e persino antidemocratici: in teoria Marino con l'8% e Franceschini con il 36% dei consensi raggiunti nei circoli del Pd potrebbero trovarsi a guidare l'intero partito da una posizione di minoranza perché incoronati dal "popolo delle primarie", segretari di una comunità d'iscritti che non li vuole, scelti da altri.

Con questo metodo, che ha richiesto un dispendio di energie economiche e politiche spropositato, si avrà finalmente un segretario di partito unto dal "Popolo", mentre a destra già esiste un leader unto dal "Signore". Tuttavia, per ottenere un simile obiettivo si è pagato un prezzo alto: da un lato, i congressi nazionali, quelli dove si discute e si formula una linea politica a maggioranza, ora sono scomparsi non solo dentro il Pdl, ma anche nel Pd perché entrambi gli schieramenti preferiscono il formato della convention elettorale all'americana, con un alto carattere mediatico a uso esterno.

Il punto è che il Pdl fa così perché ha una guida carismatica come Berlusconi, ma sfuggono le ragioni per cui anche il Pd si sia acconciato a quel modello che non prevede un'autentica discussione politica, ma solo il rinnovamento del patto sacrale tra la comunità e il suo capo. Dall'altro, si è alimentato in modo parossistico uno spirito divisivo dentro il partito che sarà impresa ardua riportare a unità.

Ma è sul piano della cultura politica che si sono prodotti i guasti più gravi e di lunga durata: anzitutto, perché si è assunta come forma di democrazia il plebiscitarismo, ovvero la "trappola populista" come l'ha definita un dirigente del vecchio Pci come Alfredo Reichlin. È un errore imperdonabile pensare d'inseguire Berlusconi su questo terreno perché gli italiani, non gli elettori motivati, ma la fascia indistinta che decide i risultati elettorali con uno scarto che sarebbe facilmente colmabile con una buona proposta politica e un leader credibile, sceglierà sempre l'originale.

L'altro errore è l'esasperazione del principio personalistico: le nostre strade sono piene di manifesti non solo dei tre candidati alla segreteria nazionale, ma addirittura dei segretari regionali che saranno eletti con loro. Come spesso accade, i convertiti al nuovo verbo diventano i più radicali ed estremisti quando passano dall'altra parte, ma anche in questo caso si è adottata una cultura politica destinata ad arrivare seconda perché priva della proprietà dei mezzi televisivi e delle qualità energetico-comunicative di Berlusconi.

In fondo, il plebiscitarismo e la personalizzazione della proposta politica sono la doppia faccia di una stessa medaglia che raffigura la situazione paradossale in cui versa la qualità della nostra democrazia: in Italia la politica non è stata mai tanto debole, eppure mai così invadente come oggi. Basti pensare alla realtà di un parlamento di nominati che solo formalmente sono eletti dal popolo, chiamato in realtà a ratificare decisioni prese altrove e perciò privato del suo diritto di scelta. Anche le primarie sono un sintomo di questa difficoltà di delega: si preferisce cercare un'indistinta e non verificabile legittimazione esterna al prezzo però di svalutare il giudizio di 450mila iscritti che hanno voltato in oltre 7mila assemblee di circolo. In questo modo, un importante segno di vitalità democratica è stato sacrificato sull'altare del "primarismo" nella convinzione che un partito di elettori fluttuanti sia più forte di un partito di militanti consapevoli.

Forse l'unico valido motivo per andare a votare alle primarie di oggi è quello di rispettare e di rafforzare la volontà degli iscritti del Pd che a maggioranza hanno stabilito che il loro segretario debba essere Bersani. Diamogli fiducia, perché dare fiducia ai partiti significa dare fiducia alla democrazia.

25 ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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