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I tassi d'Israele e il fiuto di Fischer

di Alessandro Merli

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26 agosto 2009

Dal simposio dei banchieri centrali a Jackson Hole lo scorso fine settimana, i mercati finanziari hanno recepito un messaggio, sintetizzato dal governatore della Banca d'Israele, Stanley Fischer: la crescita sta cominciando a ripartire, ma è troppo presto per dichiarare la fine della crisi, anche se il peggio è passato e i segnali di crescita sono arrivati prima del previsto. Molto resta da fare per riportare in salute le banche e ci sono buone ragioni per temere una ripresa debole.

Gli interventi di Ben Bernanke e Jean-Claude Trichet, in linea con Fischer, sono stati letti dai mercati così: che i tassi d'interesse negli Usa e in Europa (oltre che in Gran Bretagna e Giappone) resteranno ai minimi storici ancora per qualche tempo, anche se le autorità monetarie stanno cominciando a pensare alle strategie d'uscita, in altre parole a come e quando alzare i tassi e mettere fine all'espansione della moneta attraverso acquisti di titoli.

Se non che, appena rimesso piede sul suolo d'Israele, Fischer ha decretato, il primo a farlo dopo la crisi, un immediato aumento dei tassi dello 0,25%, dopo che nelle scorse settimane aveva già interrotto l'espansione quantitativa della moneta e gli acquisti giornalieri di dollari sul mercato valutario. In mezzo, ci aveva piazzato due giorni di pesanti interventi per deprimere lo shekel, tanto per far capire ai mercati che lo stop al quantitative easing e agli acquisti di dollari non era un via libera incondizionato alla rivalutazione del cambio, evoluzione rischiosa in un paese dove l'export arriva al 40% del Pil.

L'apparente contraddizione fra le parole di Jackson Hole e i fatti di Tel Aviv è facilmente spiegabile con le diverse caratteristiche di una piccola economia aperta, come quella israeliana, e le maggiori aree monetarie, e con il diverso momento congiunturale: Israele, nella valutazione del suo governatore, vede già una ripresa più imminente e un'inflazione più alta di altri. La conclusione di molti osservatori di mercato è che, per quanto riguarda le grandi banche centrali, il messaggio di Jackson Hole vale più dell'esempio israeliano, che difficilmente avrà un seguito a Washington o Francoforte, Londra o Tokyo. Il che è quasi certamente vero nel breve periodo.

Fischer però non è un governatore qualsiasi: è il maestro di Bernanke, del numero due della Bce, Lucas Papademos, e del governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ed è l'economista che ha dato sistematicità al pensiero sull'indipendenza delle banche centrali e l'inflation targeting. Dai suoi pari, è considerato un grande saggio: non a caso, a Jackson Hole, gli è stato riservata l'anno scorso la conclusione e quest'anno il discorso centrale.
Non ci sarà una corsa a imitarlo, ma le sue azioni di questi giorni costituiranno un paradigma per le mosse delle grandi banche centrali quando le rispettive economie daranno il segnale di imboccare la strategia d'uscita. Intanto, ai suoi discepoli Fischer avrà dato un'altra lezione: quando lo farete, occhio al cambio.

26 agosto 2009
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