Al mercato, soprattutto nel nord Italia, gli ambulanti dell'Europa dell'Est si stanno sostituendo agli italiani nel comparto dell'ortofrutta, mentre cinesi e coreani sono sempre più forti nell'abbigliamento. Ancora, cresce il numero di ristoranti gestiti da egiziani e cinesi e gli imprenditori edili romeni sono sempre più preferiti, per la loro convenienza, dai subappaltatori italiani.
La voglia di fare impresa in Italia cresce tra gli immigrati. Non solo a Prato, dove un'azienda artigianale su tre parla straniero, ma anche a Milano, nel bresciano, nel varesotto passando per Firenze, Reggio Emilia e Napoli. Storie di extracomunitari – a settembre 2009 le loro imprese erano quasi 250mila, il 7,4% del totale delle aziende individuali – che vedono l'attività imprenditoriale come un elemento fondamentale del processo di integrazione sociale, e che, soprattutto, contribuiscono alla crescita economica del paese. Anzi, si confermano uno dei principali fattori di tenuta del nostro microtessuto produttivo di fronte alla crisi. Dal commercio all'edilizia fino al tessile-abbigliamento rappresentano un potenziale contributo economico e occupazionale. Basti pensare, come fa notare Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere, che se nel 70% dei casi il personale delle imprese di immigrati proviene generalmente dal paese d'origine dell'imprenditore, è vero anche che oltre il 20% è italiano, una percentuale che in alcune province supera addirittura il 50 per cento.
Certo, lo sviluppo deve avvenire nella legalità, una responsabilità in primis delle aziende italiane e delle istituzioni chiamate a controllare il territorio per evitare un altro "caso Prato", alla ribalta in questi giorni come emblema dell'illecito cinese nel distretto tessile e diventato, adesso, un laboratorio d'integrazione razziale che vede la cooperazione di governo centrale, istituzioni e associazioni imprenditoriali locali per mettere a punto un progetto ambizioso verso l'emersione dell'illegalità.