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Un'America più europea e un'Europa più americana

di Carlo Bastasin

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26 Novembre 2009
Europa Usa (Corbis)

La crisi finanziaria si era da tempo tradotta in una crisi economica e ora sta assumendo il volto di una crisi dell'occupazione. È questo il maleficio di un'epoca dell'incertezza che più procede più tende a trasformarsi anziché sfumare. Negli Usa è perfino dubbio che la ripresa possa davvero dirsi tale mentre la disoccupazione è prevista crescere per tutto il 2010. La revisione del Pil del terzo trimestre da +3,5% a +2,8% significa che al netto dello stimolo fiscale la crescita non c'è.
Nel corso del 2008-2009 gli interventi pubblici hanno evitato l'infarto, ma hanno creato nuovi pericoli. A posteriori potremmo essere costretti a dire che tutto ciò che la politica economica può fare, al di fuori dei temi della giustizia redistributiva, altro non è che garantire che le condizioni di cornice siano salde: ricostituire un livello normale di offerta di moneta, garantire il funzionamento minimo del sistema bancario, difendere le reti di sicurezza sociale, migliorare la qualità del capitale umano. Quasi ogni altra cosa è pericolosa. L'eccesso di liquidità immesso dalla Fed sta creando speculazioni in ogni mercato. Gli interventi pubblici a sostegno delle banche hanno ricreato un'industria che per lungo tempo da Wall Street e dalla City ha drenato più reddito alle imprese e alle famiglie di tutto il mondo di quanto ne abbia creato. La politica fiscale americana sta costruendo un debito così mostruoso (triplicherebbe nel corso dei prossimi dieci anni secondo il Congressional Budget Office) da richiedere correzioni che peseranno molto a lungo sulla crescita.
Dopo mesi trascorsi in una logica di emergenza, proprio la perdita di posti di lavoro dovrebbe finalmente costringerci a riflettere anche sulla struttura dei modelli sociali in America e in Europa. C'è infatti una componente ideologica sia nella risposta anglosassone che favorisce la difesa delle banche e ostacola invece l'assistenza sociale agli individui, sia in quella europea in cui interessi nazionali segmentano politiche e mercati, ostacolando risposte efficienti. La grande maggioranza degli economisti dà per scontato che l'economia americana saprà recuperare prima di quella europea la crescita perduta a causa della crisi. La flessibilità americana dei mercati del lavoro e dei capitali è considerata un vantaggio in una fase che potrebbe richiedere di abbandonare settori economici non più produttivi e ricostruire nuove attività.
Secondo questa visione, la rigidità del sistema produttivo europeo ostacola la necessaria ristrutturazione. Tuttavia finora proprio la presenza di maggiori difese del mercato del lavoro europeo ha contribuito ad attenuare l'impatto della crisi sull'occupazione, sui redditi di chi lavora e sulle entrate fiscali. La crescita tedesca attuale ha superato quella americana e i sondaggi sulla creazione di lavoro nel 2010 non sono troppo negativi.
Se la crisi si rivelasse più lunga che profonda, non cioè tale da stravolgere l'intera struttura produttiva dei paesi avanzati, allora politiche di difesa dell'offerta di lavoro nello stile europeo potrebbero dimostrarsi un vantaggio. Una crisi più breve ma tale da richiedere un radicale processo di distruzione creativa dei settori produttivi, vedrebbe invece favorita l'economia americana. È possibile tuttavia che la crisi sia al tempo stesso lunga e radicale. Richieda cioè un'Europa più americana, più capace di dinamismo verso i settori innovativi e più unita da un comune sistema di flexicurity, e un'America più europea. «Lunga» è l'opinione della Commissione europea, che a ottobre ha diffuso un rapporto in cui ipotizza che l'economia possa impiegare dieci anni per ritrovare i ritmi di crescita pre-crisi. «Radicale» lo sarà, se è vero che l'America deve riconvertire interi settori quali immobiliare, auto e soprattutto finanza.
La preferenza per il modello americano è così diffusa che molti economisti hanno visto nella forte perdita di posti di lavoro Usa un segnale positivo di dinamismo, che da un lato ha permesso alla produttività delle imprese di aumentare, anziché diminuire come in Europa, e dall'altro farebbe prevedere un altrettanto rapido assorbimento con la ripresa. Gli ultimi dati sul mercato del lavoro americano dovrebbero suggerire cautela. La recessione ha già spinto 8,2 milioni di americani fuori dal mercato del lavoro a un livello che non si vedeva da un quarto di secolo. Il 40% di essi è disoccupato da almeno sei mesi e il 20% da un anno. Secondo le stime del Cbo un lavoratore su quattro privo di lavoro per un periodo non breve non riesce più a rientrare nel mercato e quelli che ci riescono devono accettare lavori pagati il 20% in meno. In una svolta "europea", il Congresso ha dovuto prolungare il sussidio di disoccupazione negli Stati più colpiti da 26 settimane a 99, una durata paragonabile a quella tedesca, per evitare che alla fine di quest'anno milioni di persone si trovino prive anche di un sussidio che non raggiunge per livello la metà della media europea.
Ma purtroppo per l'Europa i motivi di compiacimento per il proprio modello sociale finiscono presto. Secondo la visione americana, il rischio per l'Europa è che una difesa conservativa dei posti di lavoro riduca la produttività di imprese che dovrebbero esse stesse fallire per poi rinascere in nuovi settori. Ciò scoraggerebbe i nuovi investimenti portando alla fine comunque a una riduzione dei posti di lavoro. Gli ultimi dati confermano questa lettura: è vero che la disoccupazione è cresciuta meno di quanto si temesse, ma l'altro lato del mercato del lavoro, la creazione di nuovi posti, è stato deludente. Le conseguenze si fanno sentire sia sui redditi, sia sui consumi che continuano a calare (-0,9% in Germania). Così le previsioni sugli investimenti sono di un calo del 10% nella zona euro nel 2009 con un ulteriore calo (-1%) nel 2010. Il problema ideologico europeo non è sociale ma nazionale: a modelli sociali nazionali corrispondono politiche economiche nazionali che puntano a proteggere imprese e lavoratori nazionali, segmentando il ciclo economico europeo. Le divergenze tra la Germania e i paesi a più bassa produttività stanno tornando ad ampliarsi e costringeranno i paesi più deboli a difficili aggiustamenti deflazionistici (calo dei salari e dell'occupazione) per mantenersi all'interno dell'euro. Il risultato sarà meno crescita per tutti.

26 Novembre 2009
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