Se gli analisti finanziari piangono, gli economisti industriali risorgono. La crisi globale segna la rivincita dell'industria, soprattutto di quella manifatturiera, sulla finanza e rivaluta a pieno titolo un ramo della scienza economica che negli anni scorsi sembrava condannato all'estinzione. Il convegno annuale degli economisti industriali, promosso dalla rivista del Mulino «L'industria» e dall'Università di Ferrara, è stato ieri lo specchio del nuovo trend della scienza economica e non poteva non trovare nell'ex premier Romano Prodi, che è da sempre uno degli alfieri, uno dei suoi principali protagonisti insieme all'ex ministro del Tesoro e ora banchiere d'affari in Morgan Stanley Domenico Siniscalco.
Di fronte ai problemi della manifattura europea e al declino di quella americana («Con la Chrysler la Fiat ha fatto un'ottima operazione ma risollevare la qualità e la produttività del gruppo di Detroit non sarà facile» ha profetizzato Robert Crandall di Brooking Institution, la nostra industria è e resta uno dei punti di forza dell'economia italiana e, anche se si concentra al Nord e si ferma a Firenze, ha le carte in regola per giocarsi la partita del futuro. Chi vincerà, si è chiesto Prodi, la sfida competitiva del dopo-crisi? Le 40 multinazionali francesi o le 4mila medie imprese del capitalismo familiare italiano? L'eccellente performance pre-crisi dell'export del Made in Italy lascia, a suo giudizio, ben sperare ma a due condizioni: che in casa tutti (imprese, banche e stato) facciano la loro parte e che sul piano internazionale riparta la ripresa. «Spero - ha detto l'ex premier con una battuta - che a Pittsburgh i ragazzi abbiano cominciato a prendere decisioni sagge» e che tutti si ricordino che «dalla crisi si esce, come ha scritto sul Sole 24 Ore il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, solo moltiplicando il numero dei consumatori nel mondo» e allontanando lo spettro del protezionismo. In un contesto generale di crescita, l'Italia e la sua industria, secondo l'ex premier, ce la possono ma a patto che alzino il tiro e puntino a: 1) favorire le fusioni tra imprese contro l'eccessiva frammentazione; 2) valorizzare le specializzazioni produttive del made in Italy ma puntare anche su nuovi settori (Scienze della vita e energia-ambiente prima di tutto); 3) superare le debolezze finanziarie con un maggior sostegno delle banche agli investimenti industriali di medio-lungo termine («Ci vorrebbe un nuovo Imi»); 4) riservare una maggior attenzione al nostro capitale umano («Abbiamo i migliori ingegneri ma non li sappiamo valorizzare»); 5) aggredire i ritardi del Sud.
Anche Siniscalco si è detto convinto che dalla crisi si debba uscire riequilibrando i rapporti tra industria, banche e stati, secondo cui è in corso una metamorfosi del capitalismo che ha rovesciato i paradigmi del passato e indotto gli stati che avevano più risorse a pubblicizzare banche e imprese facendo però diventare il boom del debito pubblico un problema globale. Per l'ex ministro la crisi ci ricorda l'importanza della moneta e del credito e ci insegna che l'inflazione non dipende solo dai prezzi al consumo ma anche dagli asset e dalla liquidità e che il rischio sistemico esiste ma non è la somma dei rischi individuali affrontati da Basilea 2. «Bisogna ricostruire la crescita senza figli e figliastri» ha affermato Siniscalco, concordando sulla rivalutazione dell'industria. «Oggi, di fronte ai problemi che la crisi ci ha posto, ci sono - ha aggiunto il managing director di Morgan Stanley - due scuole di pensiero: ci sono i minimalisti che vogliono tornare al passato e c'è chi in Europa, come Sarkozy, la Merkel e in parte Tremonti, vuole bastonare le banche. Io credo che occorra trovare la giusta via di mezzo, sapendo che i governi possono fare passi importanti ma non tutto e che anche in Italia alle banche spetta un ruolo fondamentale a patto che non giochino con i bilanci come se fossero banche d'investimento e non usino la liquidità per rifinanziare la speculazione piuttosto che erogare credito alle imprese».