Gli artisti capaci di affrontare il dramma del potere e della vita non sono troppi, i tragici greci, Dante, Shakespeare, Verdi. Tutti avrebbero trovato ispirazione in Ted Kennedy che, in 46 anni al Senato americano, ha avuto più influenza sul paese di tanti presidenti. Dall'istruzione alla sanità, dall'emigrazione al diritto di voto, al lavoro e la giustizia, non c'è riforma Usa del dopoguerra che non porti la sigla di Kennedy, spesso in collaborazione con i repubblicani, da Bush padre a McCain. La sua facondia, il discorso funebre per il fratello Bob e quello che segnò la sua sconfitta alle primarie del 1980 «il sogno non morirà mai», il mito stesso dei Kennedy, l'avrebbero portato alla Casa Bianca se la sua personalità travagliata non l'avesse perduto nel 1969, quando una sua collaboratrice, Mary Jo Kopechne, annegò dopo una festa e Kennedy preferì coprirsi con lo staff anziché allertare polizia e ambulanze. Una tragedia americana che macchia il lavoro di un gigante della politica e ne spezza in due l'esistenza. La storia ricorderà insieme la gloria e la tragedia, i successi e la meschinità. La cronaca rauca stenta invece sempre a vedere il bene e il male coesistere in un individuo.