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Il coraggio di creare un universalismo forte

di Khaled Fouad Allam

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27 dicembre 2009

Il dibattito sulla proposta di legge sulla cittadinanza è appena iniziato alla Camera. È una questione complessa e difficile; la discussione è ricca e articolata, ma nessuno è in grado di offrire ricette miracolose. La sua complessità è legata al fatto che la questione della cittadinanza va oltre la questione dei diritti perché il contesto odierno è diverso da quello degli anni 70: mondo e individui sono cambiati. Su binari paralleli sono in atto globalizzazione e ricomposizioni identitarie; il dibattito sulla cittadinanza è essenzialmente un dibattito sulla società. Le società si interrogano sul significato di nazione, sul rapporto tra diritto e cultura, sul rapporto tra religione, diversità culturale e territorio, sul significato della democrazia: la cittadinanza interroga il divenire delle società a livello nazionale ed europeo.

Il contesto odierno è affine a quello di cui parlò Alexis de Tocqueville in L'ancien régime et la révolution: siamo nell'entre-deux, non siamo più nel prima ma non siamo ancora nel dopo, non c'è più l'ancien régime ma non è ancora la rivoluzione. Le tradizioni locali e nazionali tendono a misurarsi con la mondializzazione, il mondo in cui viviamo è decentrato perché le metropoli accolgono il mondo intero, diverse culture, tradizioni, certezze e incertezze. Per nessuno è facile governare tutto ciò, perciò oggi la cittadinanza non può più essere valutata come in passato.

I territori non sono più isolati, ma si viaggia su internet e attraverso le moderne autostrade; popoli e culture si confrontano; ma come trasformare tutto ciò in una comunità di destino? Come integrare il cinese, il musulmano, lo srilankese, mentre manca una cultura mondiale, manca una riformulazione dell'universalismo in cui il pianeta sia in grado di identificarsi, manca certo una riflessione profonda sul piano giuridico e sul piano culturale. Anche sul piano giuridico: nel caso dell'islam, è necessaria una riflessione sui diritti, in particolare sul diritto di famiglia, relativamente al quale la globalizzazione ha scardinato le antiche percezioni. La globalizzazione può avere una virtù pedagogica, spingendo le società più timorose del cambiamento verso una riformulazione giuridica e culturale, ad esempio nel rapporto tra uomini e donne.

Viviamo un tempo in cui il processo di globalizzazione induce a radicalizzare molte posizioni in un ripiegamento di tipo comunitario; le identità tendono a diventare sistemi di difesa di fronte alle nuove paure, alle insicurezze. Il risultato è che, sul piano legislativo, in quasi tutti i paesi europei le legislazioni sulla cittadinanza si avviano verso posizioni restrittive; s'instaura il dubbio sulla fedeltà degli individui alla nuova nazione d'appartenenza, e l'integrazione è rimessa in causa. Non parlerò del caso dell'islam perché ormai sembra che la questione integrazione riguardi esclusivamente i musulmani: secondo una tradizione storiografica che risale a Henri Pirenne, l'islam non sarebbe integrabile. Ma allora mi chiedo quale sia la soluzione: quella di cacciare tutti i musulmani come fece Isabella di Castiglia nel 1492, oppure ripetere ciò che è accaduto agli inizi degli anni 90 nell'ex Jugoslavia?

L'integrazione non è mai stata un processo facile, ma non abbiamo scelta. Gli esseri umani devono inventare la nuova comunità di destino: sentirsi italiano ed europeo non è impossibile per chi non vi è nato; si può benissimo amare Pergolesi e allo stesso tempo la musica indiana o quella araba; e si può amare sinceramente il paese di cui si è deciso volontariamente di diventare cittadino. Perché questo divenga il sentire condiviso, si deve creare una nuova cultura che ora non c'è. Il silenzio degli intellettuali italiani mi preoccupa, troppo spesso tendono a rinuncia e pessimismo. Il risultato è che continuiamo a creare sacche di marginalità, creiamo cittadini che hanno paura di portare il proprio nome. Il nuovo secolo ha bisogno d'altro: di corag27 dicembre 2009

27 dicembre 2009
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