Questa crisi è cominciata con il settore immobiliare americano, e da allora gli occhi sono puntati sui prezzi delle case Usa. Le prime crepe in quei prezzi erano apparse già nel 2006 (i massimi furono toccati a maggio); dopo maggio la discesa fu modesta, ma era discesa e non ascesa. E fu quell'inversione nella salita delle quotazioni che espose la fragilità di una finanza immobiliare costruita sull'ingenua certezza di un continuo aumento. Da allora quei prezzi sono scesi, e di molto: gli ultimi dati (è del 23 febbraio l'indice Case-Shiller di dicembre 2009) danno una caduta di quasi il 30% rispetto ai massimi. L'arresto della caduta è indispensabile per ridare prospettive di ripresa al settore. Il problema non è solo dei proprietari e dei mutuatari, ma anche, e forse soprattutto, di un sistema finanziario ancora inquinato da migliaia di miliardi di dollari di quei famosi, o per meglio dire famigerati, titoli tossici, il cui valore dipende in ultima analisi dagli andamenti dei prezzi delle case Usa.
E in effetti la caduta si è arrestata, sia in termini di prezzi nominali che in termini di prezzi reali (cioè relativamente all'inflazione media). Già lo notammo su queste colonne (Plus24 del 29 agosto) quando l'arresto dello sgretolamento era recente. Che cosa dicono altri sei mesi di dati? Fortunatamente confermano che la fase calante si è conclusa e assistiamo a una lenta risalita. Rispetto ai minimi toccati a maggio dell'anno scorso, siamo a un +4% circa in termini di prezzi nominali e a +2% in termini di prezzi reali. Possono tornare a scendere? Poco probabile. Le quotazioni ultime, pur essendo cadute (in termini reali) del 35% rispetto ai massimi del 2006, sono superiori di circa il 13% rispetto a vent'anni fa, ma l'aumento - dello 0,6% medio annuo - è spiegato da fattori strutturali: l'aumento della popolazione (55mila persone alla settimana) su un territorio che non aumenta, i limiti di edificabilità e il miglioramento della "qualità" delle abitazioni.