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INFRASTRUTTURE / Concerto grosso per banda larga musica 2010

di Orazio Carabini

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27 Gennaio 2010

È stata la recessione più dura nella storia recente dell'economia. Per uscirne "vivi" i governi hanno aumentato il deficit e il debito pubblico in misura senza precedenti se si eccettuano gli anni delle grandi guerre: nel 2014 i paesi del G-20 avranno accumulato un debito pari al 118% del Pil.
Ora che la congiuntura ha cambiato segno, tornando al più, il problema è gestire la ripresa. Che si annuncia lenta e faticosa un po' in tutta Europa, ma soprattutto in Italia dove il tasso di crescita da anni è inferiore a quello degli altri paesi. Le previsioni, sulle quali è necessario basarsi, parlano di uno sviluppo a colpi di 1-1,5% nei prossimi tre anni dopo una botta negativa dell'1% nel 2008 e del 4,8% nel 2009.
Forse è giunto il momento di chiedersi se, uscendo da un'apocalisse paragonabile a una guerra (almeno per l'impatto economico), non valga la pena di affrontare la ricostruzione con lo stesso impeto. È vero che per le strade non ci sono macerie e nessuno piange i suoi morti al cimitero. Per fortuna. Ma molte imprese hanno chiuso i battenti, altre hanno dimezzato la propria attività, tanti lavoratori hanno perso il posto, tanti altri lo hanno mantenuto solo perché si spera che l'economia mondiale torni presto a girare a pieno regime.
Tirato un sospiro di sollievo per aver scampato il pericolo di una crisi paragonabile a quella degli anni 30 del secolo scorso, sembra che tutti si siano adagiati nell'attesa di una magica ripartenza. E guardano soprattutto oltreconfine con la speranza che la domanda mondiale aiuti le esportazioni.
Serve invece un cambio di marcia. Un progetto condiviso che mobiliti le enormi risorse, umane, tecnologiche e finanziarie, di cui l'Italia dispone e che al momento sono in ampia misura inutilizzate. Ci sono tanti lavoratori, anche qualificati, pronti a rimettersi in azione. E c'è tanto risparmio in cerca di impieghi che offrano la ragionevole possibilità di ottenere rendimenti accettabili nel medio periodo.
Già, ma quale sarebbe questo progetto? E chi dovrebbe lanciarlo e gestirlo? Al momento la prospettiva più promettente è quella offerta dalla rete di comunicazione a banda larga in fibra ottica. L'obiettivo sarebbe quello di dotare tutta la popolazione, o almeno la grande maggioranza che vive nei centri urbani, di un collegamento superveloce dove possa transitare, a una velocità di, per esempio, 100 Megabit al secondo (veri, contro gli attuali 2 o 3 effettivi), tutto quanto serve a una famiglia, a uno studio professionale o a un'impresa. Se ne parla ormai da anni ma non si è concretizzato nulla se non un'analisi realizzata dal consulente Francesco Caio per conto del governo.
E l'Italia sta accumulando un crescente ritardo rispetto agli altri paesi. C'è chi dice che non serve perché non c'è sufficiente domanda dei servizi che potrebbero essere offerti sulla rete superveloce. Chi dice che la vuole solo la lobby dei posatori di cavi e delle imprese di costruzione. Ma il futuro è lì. E gli investimenti che in molti (quasi tutti) gli altri paesi si stanno facendo lo dimostrano.
È un progetto che costa. E su questo non c'è dubbio. Probabilmente anche più dei 15 miliardi stimati in alcuni studi. Qui arriva il punto cruciale. Nel 2010 lo stato non dispone dei mezzi finanziari per affrontare investimenti di queste dimensioni. Potrebbe prenderli a prestito ma con il debito pubblico che si ritrova faticherebbe a farli digerire ai mercati. Né esistono più le Partecipazioni statali, quei centauri mezzo stato mezzo impresa che, nel bene e nel male, sono stati al centro delle politiche di sviluppo nel secolo scorso, soprattutto dopo la guerra: la creazione di un'industria siderurgica e la costruzione dell'Autostrada del Sole, per esempio, si devono agli uomini dell'Iri e al sostegno proveniente dai governi dell'epoca.
La rete superveloce deve dunque essere un progetto imprenditoriale. Non di un solo imprenditore, ovviamente: nessuno in Italia è in grado di affrontare questa sfida con i propri mezzi. Deve essere il progetto di gruppi industriali interessati al business (tlc, media, produttori di hardware e software, costruttori), di investitori istituzionali (fondazioni, fondi pensione, fondi chiusi d'investimento), di "bracci finanziari" dello stato come la Cassa depositi e prestiti, degli enti locali (che potrebbero anche conferire le cablature già effettuate). Serve una guida forte e autorevole, legittimata politicamente con il consenso di entrambi gli schieramenti. Che deve poter contare sulla collaborazione di tutte le derivazioni della Pubblica amministrazione per non restare invischiato nella babele dei regolamenti e nella vischiosità delle procedure.
Una volta tanto insieme alla crescita del Pil anche la qualità della vita dei cittadini trarrebbe vantaggio dall'investimento: meno spostamenti, meno inquinamento, più produttività, più cultura, più sicurezza, persino più salute (con la telemedicina).
È solo un sogno? Per niente: tutto è pronto per partire, basta volerlo. A patto che qualcuno abbia il coraggio di prendere l'iniziativa. E di perseguire l'obiettivo con la necessaria determinazione.

27 Gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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