Solo un ingenuo può meravigliarsi che Bersani abbia stretto un'intesa con Antonio Di Pietro in vista delle elezioni regionali. Si capisce – visto che siamo in campagna elettorale – che nel centrodestra qualcuno ironizzi e presenti l'alleanza come un «patto d'acciaio» nel quale i democratici sono succubi. Ma in realtà cosa altro avrebbe potuto fare il segretario del Pd? Privarsi di un alleato, sia pure molto scomodo, che vale circa il 6 per cento? L'accordo non è mai stato in dubbio.
Naturalmente bisogna ricordare che Di Pietro ha creato in passato non pochi grattacapi al partito di Bersani. Con l'ex magistrato i rapporti sono stati dichiarati chiusi, a parole, in svariate occasioni: soprattutto quando il capo dell'Italia dei valori mancava di riguardo al presidente della Repubblica e, anzi, lo attaccava frontalmente. Ma il sistema elettorale ha la sua logica e impone certe scelte. E benché la linea dipietresca sia molto lontana da quella del Pd (basti pensare alla giustizia), l'intesa a due era obbligata. Pazienza per le frecciate del Fatto, il quotidiano che quasi ogni giorno ricorda quanto siano illusi i dirigenti del Pd tentati dal «dialogo» con Berlusconi.
Il punto allora non è se Bersani ha fatto bene a firmare il patto elettorale con Di Pietro, ma in quali condizioni politiche il maggiore partito del centrosinistra è arrivato all'appuntamento. Non c'è dubbio che tali condizioni siano oggi molto precarie.
Dopo la Puglia e Bologna, il Pd che si siede al tavolo con l'Italia dei valori è un partito debole. Colpito nella linea politica a Bari e ferito sul tema cruciale della moralità a Bologna. Non c'è da stupirsi che Di Pietro ieri fosse tanto compiaciuto. Allo stato delle cose, è lui l'unico e solido alleato del Pd: l'operazione con Casini, naufragata in Puglia, è tutta da reinventare. E i tempi sono insondabili.
Quanto alla moralità, il caso Delbono sembra dimostrare una volta di più che la «diversità» del Pd non esiste. Il che offre altre frecce all'arco dell'Italia dei valori, il partito dell'intransigenza giustizialista. Non a caso Di Pietro era stato il primo a reclamare le dimissioni del derelitto sindaco, con il chiaro intento di trarre vantaggio dalle difficoltà di Bersani.
C'è dell'altro. Quando Romano Prodi confessa a Repubblica, con parecchia malizia, di non sapere cosa rispondere a chi gli chiede «chi comanda nel Pd?», egli mette il dito nella piaga. Di fatto dichiara inadeguata l'attuale «leadership», peraltro da lui stesso sostenuta alle primarie contro Franceschini e i veltroniani. Oggi Prodi prende le distanze dal binomio Bersani-D'Alema e si mette alla finestra a osservare la crisi.
È qui che si inserisce Di Pietro. In vista delle regionali gioca il ruolo dell'alleato irrinunciabile. Per quanto riguarda il dopo, si vedrà. Ma Bersani è indotto ad affermare già ora che l'Idv è il perno su cui costruire un progetto per «l'alternativa». Non è poco. Abbastanza per osservare che ieri è nata un'alleanza tra eguali. Anche dal punto di vista scenografico è evidente la pari dignità fra i due contraenti. Non un grande partito del 30 per cento che sigla un contratto con una piccola forza del 6 per cento, ma due potenze equivalenti che condividono un disegno strategico. E questo aspetto la dice lunga sullo stato attuale del Pd. È tutto da dimostrare che dopo le regionali il gruppo dirigente democratico ritroverà la forza per affrancarsi dall'abbraccio di Di Pietro.