I banchieri giocano in difesa a Davos contro l'ombra lunga della politica che, dopo la bruciante sconfitta di Barack Obama in Massachusetts, vuole mettere un freno agli eccessi del passato e prendersi la rivincita sui teorici del mercato senza freni e dei seguaci della scuola di Chicago.
La battaglia si gioca sull'immagine, innazitutto. Messo Friedrich von Hayek, il cantore del mercato, nel cassetto, e rispolverato John Maynard Keynes, si torna a pensare alla ripresa prossima ventura (il 2010 sarà piatto) e al recupero di credibilità dell'uomo davosiano come l'aveva battezzato il politologo dello scontro tra civiltà, Samuel Huntington.
Poche feste senza glamour né fuochi d'artificio, molte partecipazioni a forum sulla povertà nel mondo e l'ambiente da rispettare, un clima puritano, quasi ascetico, da capitalismo calvinista, con una giornata di 18 ore di fatiche da mostrare ad azionisti e stakeholder. Senza contare i voli in classe economica e le limousine con almeno tre persone a bordo: per risparmiare sul budget e ridurre lo smog. Un clima grigio, insolito al Wef.
L'uomo di Davos, a capo chino, è in profonda trasformazione antropologica: costretto a cambiare per non essere spazzato via. Più essere e meno avere, direbbe Erich Fromm: questo è l'imperativo categorico del mondo finanziario oggi. La pattuglia dei grandi banchieri è corposa rispetto alle defezioni dell'anno scorso: si va da Robert E. Diamond, presidente di Barclays, a Vikram Pandit, chief executive di Citigroup, da Brian Moynihan, ceo di Bank of America, a John Mack di Morgan Stanley a Josef Ackermann, chairman di Deutsche Bank, senza dimenticare Alessandro Profumo, ceo di UniCredit, e Corrado Passera, ceo di Intesa Sanpaolo.
Il gotha dei banchieri del mondo è tutto qui al Wef per «ripensare, ridisegnare, ricostruire il mondo». Un'agenda ambiziosa, ma chi altro potrebbe farlo se non le migliori menti finanziarie del pianeta che sentono il fiato sul collo del "populismo" di Mean Street che monta contro Wall Street, in vista delle elezioni di mid-term di novembre?
Meglio accettare la sfida e preparare le contromosse sul divieto del proprietary trading, dimensione delle banche too big to fail, uso dei derivati over the counter per giocare solo in difesa: sul piatto, solo per gli strumenti speculativi ci sono 604mila miliardi di dollari nominali, dieci volte il Pil mondiale, e sui bonus ben 150 miliardi di dollari elargiti nel 2009 solo per le banche e finanziarie Usa.
L'appuntamento è per oggi fino a domenica, quando i 2.500 partecipanti inizieranno i lavori con i riflettori puntati sul presidente francese Nicolas Sarkozy, che parlerà di crisi e di come uscirne, di bonus e di come tassarli. Poi, giovedì, toccherà al premier spagnolo José Luis Zapatero rincarare la dose.
L'inizio è promettente, incupito solo dalla notizia del suicidio del comandante della polizia del Cantone dei Grigioni, responsabile della sicurezza del Forum.
Gli occhi saranno puntati sul grande inquisitore della finanza americana, Barney Frank, presidente della commissione finanza della Camera Usa, deputato del Massachusetts, che spiegherà come evitare la prossima crisi con due banchieri occidentali (Jacob Frenkel di Jp Morgan Chase e Lord Peter Levene dei Lloyds), l'indiano Anand Mahindra, il professore di Harvard Kenneth Rogoff che l'anno scorso propose proprio qui di nazionalizzare temporaneamente le banche Usa, e il vicegovernatore della Bank Of China Zhu Min, che ha stretto i freni della politica monetaria e gli acquisti di T-bond a stelle e strisce.
Sir Martin Sorrell, presidente di Wpp, una delle maggiori società di pubblicità al mondo, un habitué del Wef, seduto a un tavolo poco distante dal nostro al bar centrale di Davos, è ottimista: «Non è come a Copenhagen, qui c'è più tempo per trovare soluzioni. L'Occidente verrà salvato dai paesi emergenti: Brasile, Arabia Saudita, India e Cina. Per l'Europa sarà dura, meno per gli Usa». Il potere scivola da Ovest a Est, da Nord a Sud, lentamente ma inesorabilmente. Got the message?