T re domande per la sera di lunedì. La prima: come si capirà chi ha vinto e chi ha perso? La seconda: ci saranno conseguenze per il governo? La terza: cosa dobbiamo aspettarci nei tre anni che mancano alla fine della legislatura?
Il quesito iniziale è il più complicato. Il risultato delle regionali si presta a vari punti di vista, quindi prepariamoci al solito battibecco. In ogni caso, il criterio di contare le regioni assegnate a questo o quello schieramento è il più semplice e logico. Berlusconi controlla al momento due delle tredici regioni in cui si vota (Lombardia e Veneto) e si prepara a proclamarsi vincitore se appena riuscirà a strapparne altre due al centrosinistra (magari Campania e Calabria). Tuttavia in cuor suo è consapevole che il successo del centrodestra comincia solo con la conquista di una quinta regione (il Lazio o il Piemonte). Il che porterebbe nel complesso a dieci il numero delle regioni controllate dal Pdl con o senza l'alleato leghista.
Quanto alla sinistra, tutto lascia credere che Bersani eviterà di farsi rinchiudere nel quadrilatero «rosso», ossia nella repubblica degli Appennini. Per lui sarebbe la disfatta. Viceversa la vittoria in otto o nove regioni darebbe un certo slancio alla sua segreteria. Il Pd dirà che per Berlusconi è l'inizio della fine. Il che non è del tutto vero, se non altro perché il centrosinistra esce comunque dal voto senza un credibile progetto di alternativa al governo. Ma avrà tre anni di tempo per definirlo: nei contenuti e nelle alleanze (ben sapendo che il patto vagheggiato con l'Udc di Casini è ancora tutto da scrivere).
Secondo punto: le conseguenze sul governo. Berlusconi sottolinea che non ce ne saranno. Ha ragione solo se si riferisce a una crisi dell'esecutivo, che in effetti non è prevista. Ma gli equilibri nella maggioranza cambieranno in proporzione alla forza della Lega. Il suo peso nel Nord (e anche in alcune zone dell'Emilia Romagna e della Toscana) è l'elemento chiave per valutare se Berlusconi sarà ancora padrone del gioco ovvero dovrà rassegnarsi a una sorta di condominio con il Carroccio, detentore della «golden share». Al limite si può immaginare che Bossi si trasformi in una sorta di premier ombra in grado di dettare la linea, fissando le priorità riformatrici. Da lui ci si attende in quel caso che avvii un confronto serio con l'opposizione sul federalismo e non solo. Confronto che il centrosinistra non potrebbe rifiutare, specie se Bersani ottenesse qualche affidamento circa una futura riforma della legge elettorale.
Terzo punto: cosa ci si può attendere di qui al 2013. È chiaro che il paese non può sopportare un triennio nell'immobilismo, tra polemiche roventi e promesse vuote. Tutto ciò che lacera il paese rende impossibili le riforme, sia quelle economiche sia quelle istituzionali. Ecco perché il presidenzialismo, nella forma radicale in cui l'ha descritto il presidente del Consiglio, è oggi un macigno sulla strada di qualsiasi rinnovamento. E lo stesso deve dirsi per una riforma della giustizia concepita solo come «punizione» per i magistrati. Da martedì sarà lecito chiedere ai politici un sussulto di responsabilità nazionale. La sfida è difficile ma non impossibile. Si tratta di discutere, magari trovando un minimo di accordo in Parlamento, su come correggere il sistema prima del suo definitivo fallimento. Ma per questo è necessario che nessuno stravinca nelle urne e nessuno sia umiliato.