Il gioco a rimpiattino fra Berlusconi e i magistrati che vorrebbero stringergli un capestro giudiziario attorno al collo dura da tre lustri. Diciamolo: ha ormai stufato tutti, senza troppe distinzioni fra elettori di destra e di sinistra. Di più: è un passatempo che l'Italia non si può più permettere, avendo ben altre faccende da sbrigare. Le soluzioni via via sperimentate - dal lodo Schifani al lodo Alfano - per l'appunto ci hanno solo fatto perdere altro tempo. La Corte costituzionale le ha bocciate entrambe, sicché in entrambi i casi le pedine sono tornate nella posizione di partenza. Così il rimpiattino è diventato un gioco dell'oca, mentre intanto sale l'arretrato economico e sociale del paese, e sale inoltre l'arretrato giudiziario, con 9 milioni di processi da smaltire.
Come ne usciamo? Con una legge a prova di Consulta, e magari anche a prova di rinvio presidenziale. Insomma con una risposta che finalmente sia definitiva, altrimenti continueremo ad avvitarci sui guai giudiziari del premier per tutti i secoli a venire. Una risposta normativa, ma non l'ennesima legge personale. Non foss'altro perché in caso contrario la migliore delle leggi si trasformerebbe in privilegio, e il privilegio in pregiudizio, intossicando qualunque discussione. Meglio un'immunità generalizzata, nonché apertamente dichiarata, rispetto a trucchetti o stratagemmi normativi che fingono di curare la giustizia, quando in realtà hanno solo un malato da curare. In ogni caso meglio una medicina amara che tenersi addosso un febbrone da cavallo. Soprattutto se la febbre contagia il corpo delle istituzioni, e in ultimo il corpo stesso del paese. Succede ormai da troppo tempo.
È la dottrina del male minore, su cui Barbara Spinelli ha scritto un fondo appassionato (La Stampa, 15 novembre). Perché l'economia del male ci conduce su un terreno incerto e scivoloso. Perché ci abitua a stare in confidenza con il male, invece di combatterlo. Perché infine non è detto che questa strategia allontani il peggio: come osservava Hannah Arendt, può al contrario avvicinarci al precipizio. Anche Eyal Weizman ha pubblicato di recente un volumetto che giunge alle stesse conclusioni. Il male minore è la barbarie del nostro tempo, dice Weizman riferendosi alle guerre umanitarie. Eppure questa dottrina ha padri illustri, da Spinoza a Sant'Agostino. E dopotutto si tratta d'intendersi sul concetto di male maggiore. Se ci interessa licenziare il presidente Berlusconi, e magari sbatterlo in galera, ogni soluzione che impedisca tale risultato diventa di per sé nefasta. Se viceversa ci interessa sminare il campo di battaglia fra politica e giustizia, salvaguardando la legalità costituzionale, il male maggiore è la paralisi, lo stallo.
È un male minore il disegno di legge sul processo breve? No, è un male maggiore. Difatti quest'ultima trovata normativa offende in lungo e in largo il principio d'eguaglianza, porgendo il collo alla mannaia della Consulta. Perché distingue fra censurati e incensurati quando commettono il medesimo reato. Perché considera in modo eguale reati differenti (l'immigrazione clandestina trattata al pari delle stragi è il caso più vistoso). Perché la prescrizione scatta dopo due anni quale che sia il grado di giudizio, come se ogni livello processuale azzerasse il precedente. Perché infine, fra i giudizi già instaurati, tocca unicamente quelli pendenti in primo grado. Senza dire della sua irragionevolezza, intesa come sproporzione fra mezzi e fini. Se l'obiettivo è d'accorciare i tempi del processo, servirebbe casomai una cura dimagrante per i nostri troppi tribunali (1.292, quanto Inghilterra e Spagna insieme), potenziarne l'informatizzazione (il rapporto Cepej ci situa al fanalino di coda), rendere più agevole l'Adr (Alternative dispute resolution), e vario altro ancora. Non certo l'estinzione del processo, che in conclusione nega giustizia a chi l'ha domandata.
È emendabile questo scempio normativo? No, si può soltanto peggiorare. Qui infatti sbuca fuori un paradosso, poiché delle due l'una. O allarghiamo la platea dei suoi destinatari, con il risultato che più nessuno patteggerà la pena (tanto c'è la prescrizione), che dunque i processi s'ingolferanno ulteriormente, che aumenteranno perciò le 170mila prescrizioni annue che già ci teniamo sul groppone: ingiusto, o meglio irragionevole. Oppure ne restringiamo il perimetro, con il risultato d'armare un carro armato senza riempire di benzina il serbatoio: inutile, e quindi di nuovo irragionevole.
C'è allora modo di confezionare un altro salvacondotto per il presidente Berlusconi, senza demolire quel po' che resta in piedi nei palazzi di giustizia? Sì, ma a patto di scomodare il potere di revisione costituzionale, con una legge approvata a maggioranza dei due terzi, oppure dal solo centrodestra in Parlamento, ma successivamente con l'avallo - attraverso un referendum - del corpo elettorale. Dunque in tempi lunghi, forse più lunghi del processo Mills. Però tertium non datur: una norma ordinaria, come la legge-ponte proposta dal deputato Consolo in attesa che il nuovo lodo Alfano sia rivestito da un abito costituzionale, violerebbe il giudicato che circonda la sentenza 262/2009 della Consulta, sicché quest'ultima lo annullerebbe in un minuto. Altro tempo perso.
A questo punto tuttavia s'affaccia l'ennesima obiezione. Nemmeno il potere di revisione - osserva qualche costituzionalista, sulla scia della sentenza 1146/1988 della Consulta - può infrangere i "principi supremi" del nostro ordinamento? Già, ma quali sono? La Corte non lo ha mai specificato. E sarebbe un atto d'arroganza intellettuale iscrivervi tutto ciò che disturba il nostro senso etico, o se si vuole estetico. Inoltre non si può pretendere il martirio dai 15 giudici costituzionali: dopo aver scritto che il lodo Alfano richiedeva la forma costituzionale, e dopo che un nuovo lodo venga in ipotesi approvato con il concorso del Pd ovvero direttamente dal corpo elettorale, come potrebbero annullarlo?
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