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Quei miti perduti dell'industria finanziaria

di Alberto Orioli

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27 Novembre 2009

È come un sopralluogo sulle macerie di un terremoto. Là un cedimento strutturale dovuto al cemento marcio, qui un abuso che ha incrinato le fondamenta di un palazzo crollato; nel libro Wall Street: la stangata (Baldini e Castoldi Dalai), che raccoglie l'intervista che il direttore di Radicocor Fabio Tamburini ha realizzato con Gianfilippo Cuneo, padre della consulenza in Italia, non c'è alcuna concessione al politicamente corretto.
Ne emerge un'analisi cruda di una crisi da avidità, che ha come principale epicentro un eccesso d'irresponsabilità nella gestione dei rischi da parte delle grandi banche soprattutto americane. Un intreccio tra strategie oltre ogni confine di moral hazard che ha legato i manager ai loro bonus e i risparmiatori ai loro rendimenti dopati.
Prima è stato il boom degli investimenti a leva: il business dell'acquisto a debito di imprese totalizzava 15 miliardi di dollari alla fine degli anno 80, è diventato di 400 nel 2007-2008. Poi il boom dei credit default swap, una specie d'assicurazione sul rischio d'inadempienza di un debito, che totalizza un valore nominale pari a tutta la ricchezza degli Stati Uniti (43 milioni di miliardi di dollari). Di bolla in bolla, è arrivato lo scoppio. E ora passeggiamo sulle macerie.
Cuneo non è mai reticente di fronte alle domande di Tamburini; così si tratteggia il quadro delle anomalie nelle regole di vigilanza e controllo sui mercati finanziari, con revisori dei conti poco pagati e poco più che stagisti non in grado di andare oltre ciò che le imprese vogliono far loro sapere, con consulenti dal doppio ruolo che, se chiudevano gli occhi, venivano remunerati con commesse risarcitorie (e per Cuneo «l'Arthur Andersen, in proposito, faceva scuola»). Quand'anche rigoroso – è sempre la tesi degli autori del libro – il controllo risulta sempre viziato all'origine dall'eccesso di giuridicismo, dalla foglia di fico formale che nasconde spesso sostanza economica impresentabile. Risultato: è da 15 anni che nessuno controlla un bel niente. Del resto, anche le agenzie di rating «usano numeri che hanno poca affidabilità» e, quanto al falso in bilancio, «gli intrallazzi continuano a pesare». Cuneo spara a palle incatenate contro la cosiddetta industria finanziaria: «I gestori di fondi di private equity pensavano di essere i migliori nel creare i valori, ma hanno solo cavalcato una grande onda che sembrava non finire mai». Invece è finita. «E l'industria finanziaria, almeno quella che ha agito con il sistema delle leve, è morta». «Tutta l'industria che si è creata intorno al risparmio, particolarmente ricco in Italia, è un mondo che andrebbe definito meglio chiamandolo sfruttamento del risparmio»: è un altro dei passaggi "politicamente scorretti" di Cuneo. C'è spazio solo per una ripartenza su basi molto limitate e senza attese di rendimenti mirabolanti, dicono Cuneo e Tamburini, e soprattutto ci sarà futuro solo se si cambierà la mentalità dei gestori, finora abituati a gestire pacchetti solo finanziari, trascurando la concretezza delle variabili industriali.
E il mito degli «analisti»? Un mestiere ingrato, risponde sempre Cuneo, «in genere sono giovani, spesso molto giovani, lavorano a tavolino avendo come fonti i bilanci e i giornali, non devono dare un parere sul titolo in sé, ma sul fatto che la maggioranza degli altri analisti concluda che il titolo sia da comprare o vendere, perché sono le opinioni maggioritarie che fanno salire o scendere un titolo».
È stato un errore confondere il capitalismo con la finanza: il primo è saldo e sopravvive anche al brutto colpo della crisi, tanto da diventare un paradigma anche in Cina, ma la seconda deve ritrovare funzioni e modelli operativi più legati alla funzione originale di strumento di sviluppo e di crescita dell'economia reale. E per indurla a fare questo serve anche un sistema diverso di regolazione internazionale dei mercati.
Dal globale al locale, Cuneo non perde lo spirito di provocazione. Salva alcuni grandi manager (Paolo Scaroni, Eni, Pier Francesco Guargaguaglini, Finmeccanica, Francesco Saviotti, Banco Popolare, Sergio Marchionne, Fiat, Lorenzo Pellicioli, Gruppo De Agostini) ma ne bacchetta altri quali inamovibili navigatori per meriti politici come Giuseppe Bono (Fincantieri) o Franco Pecorini (Tirrenia). È scettico sulla reale necessità di mercato del salvataggio Alitalia e appoggia le istanze del fondo Knight Vinke che vorrebbe spacchettare l'Eni per creare maggiore valore con la cessione della rete.
Poche le concessioni all'autocritica: «Anch'io dopo avere resistito nel 2006-2007 all'idea di comprare aziende a valori troppo elevati, mi sono fatto convincere a fare un'operazione con forte leva, compiendo, a posteriori, lo stesso errore che hanno fatto tanti. È una certa consolazione tuttavia pensare che è solo una operazione su dieci».

27 Novembre 2009
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