La Germania è forse popolata da egoisti che non hanno a cuore il destino della Grecia? A un primo sguardo parrebbe di sì, almeno a leggere quei sondaggi – ne riferiamo a pagina 2 – che raccontano dell'ostilità di quasi nove tedeschi su dieci alla prospettiva di salvare Atene con i soldi di Berlino.
Ma, se grattiamo sotto la superficie, ci appare una realtà meno legata ai fatti delle ultime settimane. La realtà di una nazione tedesca che, da un lato, subisce ancora il peso di un trauma non del tutto metabolizzato e, dall'altro, ha recuperato il senso di un interesse nazionale che vuole rendere pienamente visibile in Europa e nella comunità internazionale.
Il trauma che torna a farsi sentire in questi giorni nelle percezioni di tanti tedeschi non è il ricordo lontano del tracollo finanziario della Repubblica di Weimar, ma quello – più recente – della perdita di sovranità monetaria che ha permesso all'Europa l'adozione della moneta unica. Se la forza del Deutschmark era stata il perno della rinascita della Germania occidentale, l'emblema del rigore finanziario a cui si erano votate dal secondo dopoguerra le sue classi dirigenti politiche ed economiche, la rinuncia a quel pilastro non è avvenuta a costo zero.
Sullo sfondo di quello che solo in apparenza poteva sembrare un atto di generosità gratuita – il suicidio del marco per far nascere l'euro – è rimasta sospesa la richiesta di non attingere mai alle tasche dei tedeschi per finanziare le eventuali sbandate della moneta unica. È quella richiesta che oggi torna a farsi sentire, alimentando la vasta opposizione popolare al piano di salvataggio della Grecia, così come la pretesa di larga parte della politica tedesca di subordinare quegli aiuti all'adozione di impegni molto più rigorosi da parte del governo greco.
Ma ben più forte del ritorno del trauma da perdita del Deutschmark è il peso dell'interesse nazionale che la Germania ha pienamente recuperato da almeno un decennio, liberandosi dei sensi di colpa che ne avevano imbrigliato l'iniziativa internazionale nella seconda metà del Novecento.
Alla fine degli anni Novanta, quando il governo di Gerhard Schroeder e Joschka Fischer decise di farsi parte attiva nella gestione dei conflitti balcanici, si disse che il ritorno dei soldati di Berlino fuori dai confini tedeschi segnalava la ritrovata consapevolezza della Germania dei propri interessi nazionali e la nuova determinazione a farli pesare ben oltre i fantasmi del Ventesimo secolo. Non si trattò di una previsione sbagliata. Perché da allora la Germania non ha più smesso di muoversi in Europa e nella comunità internazionale come una nazione pienamente consapevole della propria forza politica.
Per la Germania la crisi greca equivale sul piano economico a quello che la guerra del Kosovo ha rappresentato sul piano della sicurezza. Oggi come allora, Berlino intende pesare in Europa per quello che può concretamente dare. Nessun contributo proveniente dalla Germania può essere considerato come una scontata gratuità, o come il prezzo per colpe che nessun esponente delle sue classi dirigenti ritiene di dover ancora pagare. È un elemento di realtà con cui è indispensabile fare i conti quando leggiamo gli orientamenti dell'opinione pubblica tedesca sull'emergenza greca.
Piuttosto che una manifestazione di egoismo, quegli orientamenti rappresentano un segnale di ritrovata normalità nazionale rispetto alla quale gli appelli all'altruismo sono destinati a cadere nel vuoto. Da qui la saggia durezza di Angela Merkel, che invece di vestire i panni della generosità ha preferito alzare il livello delle richieste di rigore verso la Grecia. Un atteggiamento accorto. E soprattutto indispensabile a conquistare il consenso dei tedeschi.